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     n. 19 anno 2017

Non posso non farmi vivo. Piccole cronache smarrite da un formatore

autore, Giuseppe Varchetta
recensione, Dario Forti

Network frase, Guerini Next, Milano, ottobre 2017, € 16,50

Di certi mestieri sappiamo tutto, o per esperienza personale (abbiamo avuto tutti lunghe esposizioni a maestre e a professori) o perché letteratura, cinema e serie televisive ne hanno fatto oggetto delle loro narrazioni. Conosciamo nei dettagli la vita e il funzionamento, pur idealizzato, di un pronto soccorso ospedaliero o di uno studio di avvocati di New York (e delle aule di giustizia distrettuali). Sappiamo addirittura com'era il lavoro di uno scrivano (nuovayorkese) o  di un commesso viaggiatore della provincia americana, per quanto quei lavori o non esistano più o si siano radicalmente trasformati.

Il lavoro del formatore è ancora uno di quelli che viaggiano sottotraccia, invisibili ai radar dello sguardo letterario. È pur vero che si tratta di un lavoro di nicchia, peraltro da alcuni decenni alquanto diffuso soprattutto a Milano e nelle aree urbane del Nord Italia, e in larga parte della provincia operosa.

Un lavoro spurio, non-disciplinare (o più spesso multidisciplinare), non regolato da leggi od ordini professionali; non vanta nemmeno una cassa malattia...

A tentare di definire in qualche misura i confini di questa peculiare categoria professionale, a parte i testi tecnici, si direbbe che sia servita soprattutto la testimonianza degli esponenti più significativi della categoria stessa. Dei maestri, qualche volta dei capiscuola, la cui lezione e il cui esempio hanno attivato un processo di trasmissione generazionale basato sull'affiancamento in aula, la supervisione, l'imitazione dei gesti e della parola.

Giuseppe Varchetta - Pino per gli amici e per innumerevoli suoi allievi - è stato e continua ad essere un formatore. Uno dei migliori formatori italiani. Non c'è, né mai c'è stata, una classifica o una graduatoria (come nel golf o nel tennis professionistico); tuttavia, nel sentimento comune, Varchetta è stato senza dubbio a lungo nella cerchia ristretta dei riferimenti esemplari.

Il nostro ha scritto moltissimo in questi 40 anni: libri, saggi, articoli lunghi e brevi, relazioni, recensioni. Ha anche pubblicato - ma questa è un'altra storia - molti libri di fotografia, il suo hobby privato. Negli anni recenti si è cimentato anche con la letteratura: racconti brevi, piccole cronache dei mondi a lui familiari, le aziende e le organizzazioni in genere.

Con Non posso non farmi vivo, Pino realizza qualcosa di nuovo, di inedito. Ci racconta due giorni della vita di un formatore; più precisamente di un formatore che è anche consulente di direzione, e che pertanto alterna il tempo trascorso felicemente in aula con i suoi partecipanti a incontri, più o meno soddisfacenti, con direttori generali e comitati esecutivi di imprese multinazionali.

Le due giornate descritte rendono bene la varietà delle situazioni che un formatore incontra, tra rituali personali (le stanze d'albergo, i tavoli al ristorante...) e gesti operativi (il ripasso delle tavole da presentare al committente, il rivivere i passaggi chiave di una riunione e gli errori compiuti...).

Ogni lettore legge un proprio libro. Per me, allievo, amico, collega di Pino Varchetta, questa sua cronaca lavorativa richiama e solleva un mondo di emozioni e di sentimenti profondamente connessi a questo nostro comune mestiere: il viaggio, la solitudine, l'intimità )che convive con l'estraneità) che ci lega a partecipanti e committenti, il continuo cambio di registro che, da una sessione ad un'altra, ti fa passare dal sentirti "genitore" dei tuoi allievi (p. 43) al riconoscimento, come dice un comune amico e collega, del fatto che per i committenti "resti solo un fornitore".

C'è poi la questione, mai districabile fino in fondo, di quale sia il rapporto che connette un formatore, un consulente, un trainer (e tutte le altre numerose specializzazioni che capita di praticare nel corso della giornata) al proprio lavoro. Dice il protagonista, verso la conclusione del racconto, in un momento di sconsolata consapevolezza: "non sarò più capace di amare se non il mio lavoro; solo in questo mi potevo riconoscere" (p. 134).

Qui, per chi conosca le passioni (e le ossessioni intellettuali) di Pino, non può mancare l'immediato collegamento con la famosa riflessione del da lui amatissimo Primo Levi che, ne La chiave a stella, definisce il lavoro come "la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra". Come se la vita consistesse nel passare da "istanti prodigiosi" (cito ancora Levi) a urticanti interrogativi sul senso di ciò che si è e che si fa mentre la vita scorre. Ma forse il senso è tutto qui.

 

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