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     n. 7 anno 2017

Le Sezioni Unite dicono no agli amministratori co.co.co.

di Silvia Tozzoli

di Silvia Tozzoli

Con la recente sentenza n. 1545 del 20 gennaio 2017 le Sezioni Unite hanno completamente ribaltato (con buona pace del principio di certezza del diritto) l'insegnamento che lo stesso organo aveva impartito con sentenza n. 10680 del 1994. La novità è almeno apparentemente abbastanza eclatante: il rapporto tra amministratore e società per azioni non può (più) essere qualificato come una co.co.co.

La ragione di questo drastico revirement giurisprudenziale risiede nel fatto chea seguito della riforma del diritto societario del 2003 l'amministratore sarebbe divenuto "il vero egemone dell'ente sociale", e cioè il soggetto deputato in via esclusiva alla gestione dell'impresa, con conseguente impossibilità di considerare questo soggetto come un semplice collaboratore parasubordinato dell'impresa. In breve, sostengono le Sezioni Unite,l'attività "coordinata" dei lavoratori parasubordinati è un'attività tradizionalmente "soggetta ad ingerenze o direttive altrui", ingerenze e direttive che, invece, non sono neppure ipotizzabili nei confronti di colui che riveste il ruolo di dominus dell'impresa. E ciò anche perché, secondo la Corte, il rapporto tra società ed amministratore è un rapporto societario contraddistinto da una relazione d'immedesimazione organica, che escluderebbe quella contrapposizione di posizioni giuridiche tipica di qualsiasi contratto a prestazioni corrispettive.

Ad una prima analisi la sentenza sembra eccessivamente tranchant e, se teoricamente ortodossa, forse poco attenta alle innumerevoli "vesti" che l'amministratore può assumere in concreto. Un conto, infatti, è il ruolo dell'amministratore unico o con ampie deleghe, altro conto è, invece, il ruolo di amministratore con deleghe limitate o che opera all'interno di un gruppo di imprese.

Ma al di là delle naturali perplessità che inevitabilmente sorgono quando le Sezioni Unite ribaltano principi ampiamente consolidati, ciò che più preoccupa gli operatori del settore (tanto i direttori del personalee i legali in house quanto i consulenti esterni) è come comportarsi in futuro nel regolamentare contrattualmente i rapporti tra società ed amministratore.

Assodato che tali rapporti non possono fondarsi su contratti di co.co.co., è inevitabile chiedersi se essi possono essere comunque disciplinati pattiziamente con contratti che ne regolamentino, ad esempio, eventuali vincoli d'esclusiva, oppure patti di non concorrenza e "salary package" (ivi inclusi i c.d. golden parachutes, ossia quei trattamenti di fine mandato che, come spesso accade nella prassi negoziale, vengono erogati agli amministratori a fronte di specifiche ipotesi pattizie di good leaver o di change of control).

A nostro avviso la risposta può essere positiva. A ben guardare, infatti, le Sezioni Unite non hanno escluso in assoluto a qualsiasi possibile relazione contrattuale tra società ed amministratore, bensì soltanto a quel particolare tipo di relazione contrattuale che assume le "fattezze" della co.co.co. (e cioè quella collaborazione d'opera contraddistinta da uno stabile coordinamento organizzativo e funzionale tra prestatore d'opera e committente).

Il nuovo orientamento giurisprudenziale non sembra quindi "sbarrare la strada" alla consolidata prassi (per lo più mutuata da esperienze giuridiche straniere) di stipulare appositi management agreements con cui viene negoziato il "pacchetto" economico spettante all'amministratore. In breve, il fatto che l'amministratore non possa essere un co.co.co non significa che egli non possa contrattare con l'aziendale condizioni nel rispetto dei quali egli "entrerà" ed "uscirà" dalla società.

Del resto, a superare poi l'argomento della mancanza di contrapposizione tra le due posizioni giuridiche, i contratti degli amministratori di società per azioni sono il più delle volte stipulati direttamente con l'azionista della società amministrata, che è difficile sostenere sia un soggetto "immedesimato" nell'amministratore. Allo stato, quindi, la prassi della preventiva contrattazione tra amministratore e azionista sembra essere possibile ed ancor più opportuna. Prudenza suggerisce, tuttavia, che i contenuti di questa contrattazione siano poi trasferiti in un'apposita delibera dell'assemblea o del CDA (a seconda di quello che è l'organismo volta per volta competente), così da "incorporarli" comunque nel rapporto societario.

Altro tema di estrema rilevanza pratica è il futuro impatto fiscale e previdenziale della sentenza.

Sinora, infatti, nessun operatore del settore ha mai dubitato che la remunerazione degli amministratori fosse soggetta (proprio in ragione della riconducibilità di questa categoria di soggetti a quella dei co.co.co.) alla tassazione dei redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente (art. 50, comma 1, lett. c-bis, TUIR) e alla contribuzione previdenziale della Gestione Separata INPS (art. 2, comma 26, legge n. 335 del 1995).

Probabilmente nessun dubbio continuerà a sussistere neppure in futuro.

La norma fiscale di riferimento, infatti, dispone chiaramente che sono assimilati ai redditi di lavoro dipendente i compensi erogati "in relazione agli uffici di amministratore, sindaco o revisore di società" (cfr. art. 50, comma 1, lettera c-bis, del TUIR), con la conseguenza che tale assimilazione sembra poter operare (almeno sul piano letterale) a prescindere dalla riconducibilità o meno dell'ufficio di amministratore al modello della collaborazione coordinata e continuativa.

A conclusioni più o meno analoghe dovrebbe giungersi anche per il trattamento previdenziale, atteso che la norma di riferimento in materia di Gestione Separata INPS rinvia, a sua volta, alla disposizione fiscale sopra menzionata. E' però vero che la norma sulla Gestione Separata INPS (art. 2, comma 26, legge n. 335 del 1995) fa generico riferimento ai "rapporti di collaborazione coordinata e continuativa" di cui alla disposizione fiscale: potrebbe quindi essere astrattamente sostenibile un'interpretazione secondo cui l'amministratore di società è soggetto alla contribuzione della Gestione Separata INPS soltanto se (e nella misura in cui) egli sia inquadrabile come co.co.co. Ove si affermasse quest'interpretazione, la sentenza delle Sezioni Unite costringerebbe l'INPS a "ripensare" l'inquadramento previdenziale degli amministratori (i quali dovrebbero probabilmente essere "trasferiti" ad altra gestione INPS). Su un piano prettamente pratico, tuttavia, è assai dubbio che l'INPS abbia un qualche interesse a far propria questa lettura: riteniamo quindi che, anche sotto questo profilo, nulla sia destinato a cambiare.

Cambierà invece certamente il giudice al quale gli amministratori dovranno rivolgersi per tutelare i loro diritti nei confronti della società, anche di natura patrimoniale: se in passato vi era la competenza del Giudice del Lavoro, dopo la sentenza della Cassazione sarà necessario agire davanti al Tribunale delle Imprese.

Infine - venendo al caso concretamente deciso dalla Corte - gli amministratori saranno in futuro esposti al pignoramento integrale del loro compenso, senza poter beneficiare del limite del quinto previsto per i rapporti "para-subordinati".

La sentenza delle Sezioni Unite ha quindi certamente destato molto rumore tra gli operatori del settore, ma potrebbe essersi trattato di molto rumore per nulla.

Silvia Tozzoli, Legance Avvocati Associati 

 

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