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     n. 10 anno 2017

Contro Canto n. 93 (stimoli da 560 a 563)

di Massimo Ferrario

di Massimo Ferrario

FUTURO, un po' di filosofia farebbe bene (560)
Per quanto riguarda le visioni del futuro, credo sia meglio che ci si cominci a preoccupare del giorno di domani, quando, si suppone, saremo ancora quasi tutti vivi. In realtà, se nel lontano anno 999, da qualche parte in Europa, i pochi saggi e i molti teologi che c'erano allora avessero provato a prevedere come sarebbe stato il mondo da lì a mille anni, credo che avrebbero sbagliato su tutto. Nonostante ciò, credo che una cosa l'avrebbero più o meno indovinata: che non c'era nessuna differenza fondamentale tra il confuso essere umano di oggi, che non sa e non vuol chiedere dove lo portano, e la terrorizzata gente che, in quei giorni, temeva di essere vicina alla fine del mondo. In confronto, ci sarà un numero maggiore di differenze di tutti i tipi tra le persone che siamo oggi e quelle che ci succederanno, non tra mile, ma cento anni. In altre parole: è probabile che noi abbiamo, oggi, molto più in comune con quelli che hanno vissuto un millennio fa rispetto a quello che avremo con quelli che da qui a un secolo vivranno il pianeta... Il mondo sta finendo adesso, siamo al tramonto di ciò che mille anni fa stava appena sorgendo.
Adesso, mentre finisce o non finisce il mondo, mentre cala o non cala il sole, perché non dedichiamo il nostro tempo a pensare un po' al giorno di domani, in cui quasi tutti noi saremo ancora felicemente vivi? Invece di queste proposte forzate e gratuite sul e per l'uso del terzo millennio, che, da subito, lui stesso si occuperà di trasformare in nulla, perché non decidiamo di proporre alcune idee semplici e qualche progetto alla portata di qualsiasi comprensione? Queste, per esempio, nel caso in cui non ci venga in mente niente di meglio: (a) Avanzare dalla retroguardia, ossia, avvicinare alle prime linee del benessere le crescenti masse di gente lasciate indietro dai modelli di sviluppo in uso; (b) Creare un nuovo senso dei doveri umani, rendendolo correlato al pieno esercizio dei proprio diritti; (c) Vivere come sopravvissuti, perché i beni, le ricchezze e i prodotti del pianeta non sono inesauribili; (d) Risolvere la contraddizione tra l'affermazione che siamo sempre più vicini gli uni agli altri e l'evidenza che ci troviamo sempre più isolati; (e) Ridurre la differenza, che aumenta ogni giorno, tra quelli che sanno molto e quelli che sanno poco. Credo sia dalle risposte che daremo a questioni come queste che dipenderà il nostro domani e il nostro dopodomani. Che dipenderà il prossimo secolo. E il millennio intero. A questo proposito, si torni alla Filosofia. (José SARAMAGO, 1922-2010, scrittore e poeta portoghese , premio Nobel per la letteratura nel 1998, Il domani e il millennio, blog ‘Quaderno di Saramago', traduzione di Massimo Lafronza, 25 marzo 2009).

PERDONO, solo la vittima ha diritto (561)
Siamo padroni della nostra automobile: se qualcuno ce la sfascia possiamo - se lo crediamo - perdonarlo e rinunciare a chiedergli un risarcimento. Ma un figlio, una madre, una sorella, un amico non ci appartengono come una macchina; se qualcuno arreca loro violenza, li fa soffrire, li tortura o li uccide, possiamo - e dobbiamo - rinunciare a vendicarci direttamente e personalmente, ma non possiamo certo «perdonare» (che in qualche modo vuol dire assolvere) chi ha ucciso non noi, ma lui o lei. Soltanto la vittima ha il diritto di perdonare, anche se talora non può più farlo perché la sua vita è stata spenta.
Il perdono di un omicidio che ha colpito la propria famiglia caratterizza le arcaiche società tribali e sopravvive nella società mafiosa, perché in quelle culture è la «famiglia» - in senso stretto o traslato - che conta, non il singolo individuo, il quale le appartiene ed è appunto considerato una sua proprietà. L'omicidio diviene allora un danno, ancorché ingente, subito dalla «famiglia» e, come tale, può essere perdonato mercé un adeguato risarcimento.
La civiltà - almeno la nostra - si fonda invece sul valore insopprimibile, irripetibile e insostituibile del singolo individuo, di ogni individuo; sul suo inalienabile diritto alla dignità e alla vita, la cui infrazione non può essere «perdonata» da nessun altro.
Chiedere, pubblicamente, a chi soffre la morte di una persona amata se perdona o no chi l'ha uccisa è una pacchiana sfacciataggine, che viola il senso della legge e offende l'autentica, non sbandierabile pietà del perdonare. (Claudio MAGRIS, 1939, germanista, già docente universitario, scrittore, Basta con la parodia del perdono, ‘Corriere della Sera', 9 settembre 2011).

ITALIANI, ci meritiamo Alberto Sordi (562)
È l'Italia che rincula. È fatta, composta, creata con le categorie del più spaventoso conservatorismo. A iniziare dalla sinistra. Proporre rischi ai nostri concittadini è impossibile. Cagasotto, questo siamo.
[D: Origini?] Partiamo dai film di Alberto Sordi, una tragedia.
[D: Non sarà d'accordo con Moretti che sosteneva: «Ve lo meritate Alberto Sordi»] D'accordissimo. Ha compiuto un'operazione sconvolgente, orribile, devastante. Ha mostrato italiani che esistono ma che sarebbe stato meglio non santificare. Li ha giustificati. Io il mondo l'ho visto. Dalla Svezia al Sudamerica.
[D: E che lezione ne ha tratto?] Sono tutti più tristi e meno geniali di noi, ma hanno il dono di sapere cosa significhi coesione. Sa cosa mi diceva mio padre? Stai con il popolo o con il re. Mai con i borghesi. L'essenza profonda della nostra nazione alberga lì. Tra industrialotti, bottegai, finti perbenisti, gente che si illude di non essere ciò che è. Il peggio del peggio. (Roberto VECCHIONI, 1943, già insegnante di liceo, cantautore e scrittore, intervistato da Malcom Pagani e Silvia Truzzi, 'Il fatto quotidiano', 5 novembre 2010).

SPECIALIZZAZIONE, è alienazione (563)
Col termine ‘alienazione' (...) Marx non si riferisce solo al fatto che il valore del lavoro non torna per intero al lavoratore, ma soprattutto al fatto che ciascun uomo viene apprezzato e ripagato esclusivamente per la capacità in cui eccelle. La specializzazione diventa così la sua tirannia che non consente a nessuno di noi di esprimere altre possibilità umane, perché è la specializzazione che ci dà un riconoscimento e quindi un'identità sociale, oltre che una retribuzione che è poi la condizione per vivere. Una vita naturalmente monca, proprio perché ‘specializzata'. Scrive in proposito Marx ne L'ideologia tedesca (Editori Riuniti, p. 24): «Appena il lavoro comincia a essere diviso, ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire. È cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico». Anche se storicamente il comunismo non si è realizzato nelle forme che Marx prevedeva, il suo concetto di ‘alienazione' nella società capitalistica, dove ciascuno di noi viene riconosciuto solo come rappresentante di una sua specifica capacità, merita davvero una grande attenzione, perché gran parte della nostra infelicità dipende dal fatto che ci sentiamo sempre meno uomini e sempre più funzionari di apparati. E persino la nostra libertà è sempre meno personale e sempre più di ‘ruolo' (come si chiamava il rotolo di pergamena su cui l'attore recitava la sua parte), nel senso che la nostra libertà dipende sempre più da quanti ruoli possiamo giocare nella società, recitando di volta in volta la parte in cui siamo specializzati. Penso che il proprio ‘equilibrio cognitivo' (...) nella nostra società sempre più organizzata nella specializzazione del lavoro, ciascuno di noi lo possa trovare solo nel tempo libero, se appena evitiamo di consegnare anche questo tempo al ruolo del week-end e delle ferie forzate. (Umberto GALIMBERTI, 1942, psicoanalista, filosofo, saggista L'infelicità della specializzazione, ‘lettere', ‘D la Repubblica delle Donne', n. 667, ottobre 2010).

Massimo Ferrario, consulente di formazione e di sviluppo organizzativo, responsabile di Dia-Logos 

 

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