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     n. 12 anno 2017

Smart working e gestione delle risorse umane. Alcune domande per i leader HR del XXI secolo

di Gabriele Gabrielli

di Gabriele Gabrielli

Lavoro agile e smart working: due facce di un unico approccio
Parliamo di lavoro agile o flessibile e di forme di smart working usando terminologie non univoche che generano qualche incertezza definitoria. Le esperienze cominciano a generare anche complesse questioni per chi si occupa di human resource management:

  • quale ruolo avrà la persona che lavora nell'epoca segnata dalla digital transformation infarcita di espressioni come smart working, lavoro flessibile, lavoro agile, piattaforme collaborative? 
  • quali esiti avranno le nuove modalità di ideazione, produzione e scambio di beni e servizi per le politiche e gli strumenti di gestione delle risorse umane?
  • come cambierà la vita delle persone che lavorano?
  • Segnalavo che non c'è una definizione capace di cogliere e proporre unitariamente la varietà degli aspetti discussi dalla teoria e sperimentati dalla pratica sul "lavoro agile" che rappresenta l'idea seminale (l'agile manufacturing) di quanto stiamo discutendo.I confini tra questo e il lavoro flessibile, le forme di smart working, la flessibilità oraria e il lavoro "lean" non sempre infatti risultano chiari. E' interessante però ricordare la prospettiva dell'agile manufacturing che, valorizzando alcuni principi della lean production come la filosofia del miglioramento continuo, estende ora l'attenzione dal prodotto all'intero processo e al modo di intendere il lavoro. E' importante perché penso che non si possa discutere di smart working trascurando quest'aspetto che evoca la ricerca di un'adattabilità continua dell'organizzazione al cambiamento, alle sollecitazioni del mercato, alle opportunità offerte dalla tecnologia. Nello stesso tempo, però, il concetto di smart working sottende anche altro, identificando per lo più l'obiettivo di conseguire una diversa cultura del lavoro basata principalmente sulla filosofia della responsabilizzazione dei collaboratori e di una particolare attenzione ai risultati. In questo senso, ci pare efficace la definizione proposta dai ricercatori del CIPD che delineano lo smartworking come "un approccio all'organizzazione del lavoro inteso a conseguire maggiore efficienza ed efficacia nel raggiungimento dei risultati produttivi attraverso una combinazione di flessibilità, autonomia e collaborazione, contestualmente all'ottimizzazione degli strumenti e degli ambienti di lavoro a beneficio dei collaboratori". Le sue principali caratteristiche sono quelle riportate nel box.

 

SMART WORKING: CARATTERISTICHE
  • Un alto grado di autonomia e una filosofia di responsabilizzazione
  • Il lavoro in team virtuali o in gruppi, fondato su relazioni improntate alla fiducia
  • Indicatori di prestazione basati sui risultati
  • Flessibilità di orario, di luoghi e posti di lavoro, come condizioni organizzative a supporto della collaborazione
  • Allineamento con gli obiettivi di business per creare valore a vantaggio delle organizzazioni, dei collaboratori e dei clienti
Fonte: nostri adattamenti da CIPD 2014 (HR: Getting smart about agile working)

Dunque, ci pare che il lavoro agile e lo smart working siano due facce di un unico approccio: da un lato le organizzazioni devono disporre e valorizzare un DNA adattivo e in continuo cambiamento, dall'altro, per essere efficaci, hanno bisogno di una cultura del lavoro altrettanto adeguata, senza "se" e senza "ma". Consiste in questo, a ben vedere, il gioco della trasformazione continua guidata dall'esigenza di sopravvivere in un mercato plasmato da un'innovazione tecnologica che appare sempre più disruptive. E' richiesta allora una competenza chiave per "giocare" nel campionato del lavoro agile e dello smart working: la "resilienza", che devono avere imprese e lavoratori.

Cosa si richiede alle persone che viaggiano sul treno della progressiva traslazione del rischio?
Nella prospettiva degli individui questo sport richiede autonomia crescente, capacità di far da soli, assunzione di responsabilità crescenti, riconoscimento di premi in funzione dei risultati. C'è una domanda più prepotente delle altre che si affaccia sul nuovo scenario: cosa si può fare per accompagnare le persone in questa trasformazione? E' responsabilità delle funzioni HR farsi carico di questo? O non è richiesto loro? Perché ogni individuo ha aspettative e preferenze proprie, timori di non farcela, una visione della vita, progetti personali, capacità e competenze magari non coerenti con il livello di self-efficacy e di self-management richiesto da un'idea del business che, viaggiando sul binario ad alta velocità della progressiva traslazione del rischio dall'impresa al lavoratore, non prevede fermate, né carrozze per viaggiatori "non allineati".
Nel porre queste domande, beninteso, non voglio affatto svalutare le opportunità che lo smart working, nella sua declinazione che consente la flessibilità spaziale della prestazione, arreca - solo per fare qualche esempio - in termini di miglioramento del work-life balance, di prevenzione dello stress e di aumento della produttività sul lavoro. Ci sono interessanti sperimentazioni, soprattutto oltreoceano, che rendicontano questi positivi risultati. Né voglio sottovalutare che lo smart working può assecondare più efficacemente i mutamenti di atteggiamento verso la carriera intervenuti nell'ultimo decennio. Ci sono anche in questo campo numerose ricerche che mostrano un profondo cambiamento delle preferenze di carriera dei lavoratori. Aumenta significativamente, infatti, il numero delle persone che vorrebbero essere occupati in più ruoli dello stesso livello, piuttosto che rincorrere la promozione verso ruoli senior; così come aumenta la percentuale dei lavoratori che considerano meno importante il successo di carriera. Quelle ricordate sono tutte dimensioni che sembrano poter trovare risposte soddisfacenti nelle nuove configurazioni disegnate dal lavoro agile e flessibile. Ci sono tuttavia altre dimensioni coinvolte dallo smart working che interrogano la gestione delle risorse umane.

Il lavoro senza tempo e senza luogo
Sono in molti a pensare che quest'epoca sarà ricordata soprattutto per la sua attitudine a ridisegnare progressivamente il lavoro facendolo diventare "senza tempo e senza luogo". Un lavoro per il quale, grazie alle nuove tecnologie, diventa marginale il luogo (azienda, fabbrica, ufficio) dove erogare la prestazione, aspetto centrale invece per il lavoro del secolo scorso.
Non solo. Ormai, la disponibilità e progressiva diffusione a costi accessibili di strumenti intelligenti consentono agli stessi lavoratori di diventare proprietari dei mezzi di produzione, facendo potenzialmente saltare una premessa attorno alla quale abbiamo costruito l'impalcatura culturale, giuridica, sociale del lavoro subordinato, ossia che l'imprenditore - proprio perché proprietario dei mezzi di produzione, diversamente dal lavoratore - si deve assumere i rischi dell'organizzazione dell'impresa.

Verso il lavoro autodeterminato. Crescono di importanza i ruoli di facilitazione, potenziamento e accompagnamento delle persone
Oltre al luogo del lavoro, dunque, salta anche il tempo. Quest'epoca infatti produce quelli che Dario Di Vico ha chiamato "lavori senza tempo", espressione che coglie appieno questa loro caratteristica di liberare il lavoratore da vincoli temporali etero diretti per apparire sempre più autonomi. La flessibilità, considerata un tempo diritto da conquistare, oggi la si guarda da una diversa prospettiva: una virtuosa esigenza dell'organizzazione produttiva cui adeguare tempi e luoghi - avremmo detto nel secolo scorso - di "svolgimento della prestazione lavorativa". Un'esigenza virtuosa perché consente maggiore libertà alle persone, lasciando supporre uno scenario in cui sarà possibile svincolarsi progressivamente dal potere di determinazione dell'impresa verso cui il lavoratore si assoggetta attraverso il vincolo della subordinazione. Un'esigenza virtuosa, infine, perché capace di riposizionare l'asimmetria del lavoro riconoscendo al collaboratore il potere di "autodeterminare" anche l'orario, scegliendo in una sorta di menu l'opzione più favorevole. E' arrivato dunque il momento di svolta? Grazie alla tecnologia e a un diverso atteggiamento (interesse) delle imprese si aprono davvero nuove vie e opportunità perché la persona che lavora possa realizzarsi pienamente? Sono domande importanti che nascono da quel ruolo di progressiva e maggiore responsabilizzazione che viene riconosciuto all'individuo nella costruzione, lungo tutta la vita, del suo percorso di crescita, sviluppo e carriera. Un tratto questo che segnala una possibile direzione evolutiva del people management del XXI secolo, chiamato sempre più a ruoli di facilitazione, potenziamento delle capacità, accompagnamento delle persone. Una tendenza cui rendono testimonianza ormai le numerose pratiche di gestione delle risorse umane che si muovono nella direzione di un uso sempre più diffuso di strumenti di auto-valutazione, auto-sviluppo, auto-formazione, auto-apprendimento, auto-narrazione.

Di chi sarà il tempo di lavoro? Le implicazioni per le politiche e gli strumenti di reward management
A questo punto potremmo domandarci se la direzione prospettata verso un modello di autodeterminazione nel lavoro sia compatibile con quella "subordinazione" (e le sue caratteristiche, prima fra tutte l'eterodirezione) che resta il paradigma ispiratore del Jobs Act. Semplificando molto potremmo chiederci:

  • il tempo di lavoro nel futuro (prossimo) di chi sarà? 
  • sarà sempre dell'imprenditore, che potrà dunque organizzarlo per produrre e scambiare beni e servizi realizzando così gli obiettivi del progetto d'impresa? 
  • o piuttosto il tempo sarà del lavoratore, che potrà a sua volta organizzarlo in autonomia per offrire competenze, servizi, pensiero, energia? 
Nel primo caso continueremmo a muoverci all'interno di uno schema retributivo prevalentemente fondato sul tempo come misura di determinazione della retribuzione delle attività di lavoro ("operae"), anche se mitigato dagli strumenti già disponibili che collegano parte della ricompensa a obiettivi (individuali, di team, aziendali, di gruppo) che individuano forme d'incentivazione della prestazione e/o di partecipazione dei lavoratori all'impresa. Nel secondo caso, invece, lo schema retributivo vedrà spostare il suo baricentro verso il risultato ("opera") individuato anche come fonte da cui trarre i criteri che legittimano e misurano la ricompensa. Come saranno allocati allora i rischi del lavoro nell'epoca della trasformazione digitale e dei lavori senza luogo e senza tempo? Il reward management sarà sempre più orientato, per usare un'espressione di Luigi Olivieri, da una logica del "ti pago se" che soppianterà progressivamente quella del "ti pago per"? Dovremmo a quel punto riscrivere testi e pratiche HR.

 

Tutti imprenditori in un unico e globalizzato open-space?
Mi pare che questi primi tre lustri del nuovo secolo offrano a studiosi e pratictioner dello HRM numerose piste per sviluppare riflessione, confronto, sperimentazione ed esercitare responsabilità. Tra queste spicca per la sua portata quella che lascia supporre un assottigliamento progressivo della distanza tra l'imprenditore e il dipendente. Fare l'imprenditore infatti è stato sempre un privilegio di pochi. Potrebbe esser giunto il tempo per cambiare questa prospettiva, perché ora ci sono fattori che aprono tale possibilità a molti. Ci sono allora nuove ed esigenti domande che interpellano direttamente le donne e gli uomini che lavorano nell'HR:

  • possiamo assumere l'ipotesi che tutti abbiano la vocazione imprenditoriale e che vogliano diventare davvero imprenditori, accollandosi i rischi conseguenti e autodeterminando il proprio lavoro? La filosofia del lavoro agile e le forme di smart working, insieme alle opportunità offerte dalla tecnologia, sembrerebbero infatti incentivare questa ipotesi. 
  • in questo scenario, sarebbe ancora appropriato guardare al tempo come criterio più adeguato per determinare la retribuzione, o non sarebbe preferibile puntare diritti al risultato?
Tirando le fila di questi appunti riflessivi, potremmo iniziare a immaginare il nostro pianeta come un unico e globalizzato open-space senza orario, dove le persone continueranno a lavorare, certo, disponendo però dei mezzi di produzione divenuti nel frattempo ancora più smart (e accessibili) e senza dover più sopportare (almeno sembrerebbe) il peso della direzione altrui. Senza considerare l'impatto che l'Intelligenza Artificiale e i robot porteranno nel lavoro e nelle sue configurazioni. Tema dalla portata disruptive anche per la gestione delle risorse umane.
Quel che appare certo è che le opportunità da cogliere per accrescere il benessere sono numerose, ma non possono mettere in ombra che la trasformazione ci interroga (e interroga le leadership HR) anche sulla visione dell'essere umano e del lavoro che abbiamo o che vogliamo. Riprendendo lo spunto iniziale, che atteggiamento vogliamo avere riguardo le nuove fragilità che scopriremo? Come possiamo prendercene cura per non lasciarle ai margini? E' questo un territorio su cui sperimentare inedite forme di welfare aziendale? Credo che la cosa più importante sia, da un lato, non sottrarsi alle istanze di cambiamento, dall'altra mantenere viva l'attenzione sulle ricadute per la "buona vita" delle persone che è il bene irrinunciabile verso cui tendere.

 

Gabriele Gabriellli
Adjunct Professor di HRM and Organisation alla LUISS Guido Carli
Presidente Fondazione Lavoroperlapersona (www.lavoroperlapersona.it)

 

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