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     n. 6 anno 2018

Contro Canto n. 99 (stimoli da 597 a 603)

di Massimo Ferrario

di Massimo Ferrario

MANAGER, sì ma non Mba (597)
[D: Lei ha scritto un libro dal titolo eloquente Managers not Mbas: quali sono secondo lei gli errori e i meriti delle Business School?] Beh, non creano manager e, di sicuro, non creano leader. Perché è impossibile farlo solo in classe. Sono ottime per la formazione a livello di funzione: e, di sicuro, chi è al timone di una company deve capire il marketing, la finanza, l'accounting e così via. Ma non trasformano in manager persone che prima non lo erano.
[D: Come si ‘costruisce' un leader?] Posso dire quale è la strada migliore per diventarlo: entrare nell'industria, nel mondo del lavoro, conoscerlo, mettersi alla prova, far carriera, arrivare in posizioni manageriali. Ed è a questo punto che è il momento giusto di ‘andare a scuola'. Ma scegliendo un programma che usi l'esperienza manageriale in modo esplicito. (Henry MINTZBERG, 1939, famoso esperto statunitense di management, docente di studi manageriali alla McGill University, intervistato da Iolanda Barera, ‘Economia & Carriere', ‘Corriere della Sera', 23 marzo 2007).

IDENTITÀ, è per i ricchi (l'appartenenza per i poveri) (598)
Stabilire identità e appartenenza a partire dall'individuazione di un nemico è la macchina più antica del mondo e siccome anche noi occidentali procediamo secondo questo schema il nostro ‘progresso' sembra faccia acqua da tutte le parti. Di per sé identità e appartenenza sono tra di loro antitetiche. Nel senso che l'identità è ciò che si individua a scapito dell'appartenenza. L'adolescente che cerca la sua strada è obbligato a sganciarsi dalla famiglia di appartenenza (i genitori ne sanno qualcosa). Ancora una volta però dobbiamo dire che l'identità è di coloro che si possono permettere di prescindere dall'appartenenza, come ad esempio i ricchi: i deboli sono invece costretti a reperire la loro identità nell'appartenenza. Questa è la ragione per cui noi occidentali, essendo i più ricchi del mondo, e avendo sviluppato per secoli il concetto di individuo, siamo facilitati nel prescindere dall'appartenenza. Un giocatore nero che sia valido sul campo è più legato alla sua identità che al legame con la sua tribù d'origine. I ricchi si intendono al di là delle appartenenze etniche. Per cui potremmo dire che l'appartenenza è il sostegno dei poveri, e invece l'identità che prescinde dall'appartenenza è il privilegio dei ricchi. (Umberto GALIMBERTI, 1942, filosofo e pscioanalista di matrice junghiana, Trovare soluzioni ai conflitti, ‘D la Repubblica delle Donne', 7 luglio 2007).

CONTRADDIZIONI, è l'esistenza (599)
Erano più di dieci anni che non viaggiavo su queste strade. Sembravano assolutamente familiari; e allo stesso tempo assolutamente estranee e lunari. Non riuscivo a conciliare queste due sensazioni. Ricordo questo sentimento - questo pensiero - con estrema chiarezza. La consapevolezza che a volte è possibile - se non necessario - coltivare idee contraddittorie; accettare la verità di due cose che si contraddicono a vicenda. Stavo solo iniziando a capirlo: a riconoscere che questa è una delle condizioni fondamentali della nostra esistenza. (Jonathan COE, 1961, scrittore inglese, La pioggia prima che cada, 2007, romanzo, Feltrinelli, 2007).

COMPLESSIVITÀ, un neologismo in crescita (600)
Se una trattazione, o un'organizzazione o una politica è complessa, parliamo della sua complessità. Ma se riesce a tenere insieme tutto il complesso degli elementi in gioco? Non è detto che sia complessa, può anche essere semplice e lineare e, tuttavia, cogliere l'intero insieme di elementi ed essere quindi complessiva.
Dal bisogno di indicare una tale caratteristica in anni recenti sono nati ‘complexivité' in francese, ‘complexivity' in inglese, ‘complexividad' in spagnolo, ‘Komplexivitaet' in tedesco, in italiano ‘complessività'. I dizionari, anche quelli dedicati ai neologismi, non registrano ancora queste forme, i cui primi avvistamenti risalgono agli anni novanta in spagnolo e inglese, almeno al 1999 in italiano, al 2000 in francese. Le parole sono rare in spagnolo, francese, tedesco; maggiore la frequenza in inglese, e ancor più in italiano. Negli ultimi tempi la frequenza è molto cresciuta in tutte le lingue, soprattutto in italiano. Amiamo più di altri ciò che è complessivo e, dunque, la complessività? (Tullio DE MAURO, 1932-2017, linguista, rubrica ‘la parola', ‘Internazionale', 17 febbario 2007).

LEGGERE, un vizio (601)
Immersione, immergersi: c'è una grande poesia in alcune delle espressioni più comuni. Chi s'immerge in un libro scende lentamente verso il fondale di un ambiente più denso e meno illuminato della realtà esterna. Chiude il boccaporto, si mette comodo, in silenzio. Il mondo reale a volte è piacevole, altre volte ostile. Nella camera sommersa del libro si è in salvo da tutto, almeno per un po'. Il mondo reale, le esperienze concrete, possono essere felici o sfortunate, stimolanti o noiose, ma in ogni caso ci costringono a limiti spaziali e temporali, a un numero sempre scarso di personaggi, alla possibilità di annoiarci. Il libro moltiplica le dimensioni del mondo e la varietà dei paesaggi e delle vite; ci salva dall'immediatezza letterale delle cose, dal loro fatale ancoraggio al qui e all'ora, all'io conosciuto. Ma il libro non intorpidisce la curiosità nei confronti dello spettacolo illimitato e piacevole di quanto ci circonda: se ben letto, è una lente d'ingrandimento, un microscopio, un telescopio, una macchina del tempo.
Ma non si legge per imparare, né per sapere di più o per evadere dalla realtà. Si legge perché la lettura è un vizio perfettamente compatibile con la scarsezza di mezzi, con la mancanza dell'audacia richiesta da altri vizi e, cosa più importante, con l'assoluta pigrizia. Il vero appassionato compie la maggior parte delle sue letture in diversi gradi di vicinanza alla posizione orizzontale. Ma si sottopone anche alle più grandi scomodità: legge in piedi, in un vagone della metropolitana, sulla dura sedia di una biblioteca pubblica, sotto una luce fioca che fa male agli occhi, perfino in mezzo alla strada, con la stessa impazienza con cui qualcuno che ha comprato un filone di pane appena sfornato spezza la crosta dorata e la mangia tornando a casa. (Antonio MUÑOZ MOLINA, 1956, scrittore e saggista spagnolo, Quando leggere è un vizio, ‘Internazionale', 17 febbraio 2007).

VECCHIAIA, quell'ancora (602)
Vecchio io? In assoluto, sì: lo dicono l'anagrafe, la presbiopia, le chiome grigie, i figli ormai adulti. Proprio la settimana scorsa, per la prima volta, mi hanno ceduto il posto in tram, e mi ha fatto un effetto singolare. Soggettivamente, di regola non mi sento vecchio. Non ho perso la curiosità per il mondo intorno a me, né l'interesse per il mio prossimo, né il gusto di competere, di giocare e di risolvere problemi. La natura mi piace ancora, mi dà gioia percepirla attraverso i cinque sensi, studiarla, descriverla in parole pronunciate o scritte. Organi, membra, memoria e fantasia mi servono ancora bene. Tuttavia, sono acutamente consapevole del suono grave di questa parola che ho appena scritto qui due volte, ‘ancora'. (Primo LEVI, 1918-1987, scrittore e poeta, citato da Maurizio Crosetti, Già vent'anni, blog ‘rimbalzi', www.repubblica.it, 9 aprile 2007).

ATTESA, gioia somma e perfetta (603)
Mezzogiorno col sole, quando l'estate è ancora illimitata, ai tavoli del caffè in Piazzetta con un bicchiere di vino bianco, io e mio padre scambiando poche parole, attendendo gli amici, osservando la gente che conosciamo. Gioia somma e perfetta, astratta dal tempo, in mezzo al paese, come fuori della portata della morte. Rabbrividisco al sole. (Luigi MENEGHELLO, 1922-2007, scrittore, Libera nos a malo, citato da Maurizio Crosetti, Attendendo, blog ‘rimbalzi', www.repubblica.it, 8 luglio 2007).

Massimo Ferrario, Consulente di Formazione e di Sviluppo Organizzativo, responsabile di Dia-Logos 

 

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