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     n. 6 anno 2018

Il valore probatorio dell’e-mail c.d. “tradizionale”

di Angelo Zambelli

di Angelo Zambelli

In un'epoca caratterizzata da un incessante utilizzo della posta elettronica e - più in generale - di uno svariato numero di strumenti informatici, le aule giudiziarie si trovano sempre più di frequente a statuire su cause strettamente connesse all'utilizzo di tali tecnologie.
In particolare, negli ultimi anni è stato registrato un significativo incremento dei contenziosi legati a licenziamenti disciplinari fondati su un indebito utilizzo - se non un vero e proprio abuso - da parte dei dipendenti dell'e-mail aziendale, di internet ovvero delle nuove tecnologie.
Inoltre, con sempre maggior assiduità vengono emesse pronunce giurisprudenziali circa il valore probatorio delle risultanze provenienti dai suddetti strumenti informatici.
Di recente - con la sentenza n. 5523 depositata l'8 marzo 2018 - la Suprema Corte si è espressa sul tema della valenza probatoria dell'e-mail c.d. "tradizionale", ossia l'e-mail che - a differenza del messaggio elettronico sottoscritto con firma avanzata, qualificata o digitale - risulta priva di specifiche caratteristiche di sicurezza.
Sul punto la Corte di Cassazione ha sottolineato come non possa essere riconosciuta la natura della scrittura privata, e quindi il relativo valore di "piena prova", alle e-mail c.d. "tradizionali". Infatti - secondo gli ermellini - l'art. 21 del D.Lgs. 82/2005 ("Codice dell'Amministrazione Digitale"), nelle diverse formulazioni, ratione temporis vigenti, attribuisce l'efficacia prevista dall'articolo 2702 c.c. (ossia l'efficacia della scrittura privata) solo ed esclusivamente «al documento sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, mentre è liberamente valutabile dal Giudice, ai sensi dell'art. 20 D.Lgs. 82/2005, l'idoneità di ogni diverso documento informatico (come l'e-mail tradizionale) a soddisfare il requisito della forma scritta, in relazione alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità».
Nel caso in esame, proprio sulla scorta di tale minor "attendibilità" delle e-mail tradizionali, la Corte d'Appello di Roma aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato ad un dirigente poiché «la prospettazione» fornita dalla Società era fondata - oltre che su dichiarazioni provenienti da soggetti direttamente coinvolti nella vicenda e quindi inattendibili perché interessati ad un certo esito della lite - su «messaggi di posta elettronica di "dubbia valenza probatoria"». Nello specifico, la Corte territoriale aveva escluso che le e-mail fossero «riferibili al suo autore apparente», non trattandosi di corrispondenza elettronica certificata o sottoscritta con firma digitale in grado di garantire l'identificabilità dell'autore e la sua integrità e immodificabilità.
Tale principio, che risulta di elevata importanza atteso che la maggior parte dei licenziamenti disciplinari si fonda su documentazione proveniente dalla posta elettronica c.d. tradizionale, non è comunque nuovo nel panorama giurisprudenziale.

Infatti, alcuni Tribunali avevano già in precedenza sottolineato come il messaggio di posta elettronica non certificato e privo di firma digitale non possa fornire alcuna certezza sulla provenienza o sull'identità dell'apparente sottoscrittore, essendo sufficiente «intervenire sul programma di posta elettronica perché chi riceve il messaggio lo veda come se fosse inviato da diverso indirizzo» (Trib. Roma, ordinanza del 20 dicembre 2013; Trib. Brescia, sentenza n. 348/2008).

Avv. Angelo Zambelli
Co-Managing Partner, Grimaldi Studio Legale

 

 

 

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