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     n. 8 anno 2018

Illegittimi i controlli dell’agenzia investigativa sull’attività del dipendente se non finalizzati alla prevenzione di atti illeciti

di Marcello Floris

di Marcello Floris

La Corte di Cassazione ha recentemente ribadito con la sentenza n 6893 del 2018 del 20 marzo 2018 il proprio orientamento consolidato secondo cui è giustificato l'intervento delle agenzie investigative solo in funzione di verifica degli atti illeciti del lavoratore, non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione.
La fattispecie che ha originato la decisione deriva da un licenziamento per giusta causa irrogato ad un dipendente che lavorava durante il periodo di congedo ex art. 4 della legge n. 53/2000.
Secondo la norma citata, i lavoratori hanno diritto ad un permesso retribuito di tre giorni lavorativi all'anno in caso di decesso o di documentata grave infermità del coniuge o di un parente entro il secondo grado o del convivente, purché la stabile convivenza risulti da certificazione anagrafica. In alternativa, nei casi di documentata grave infermità, il lavoratore e la lavoratrice possono concordare con il datore di lavoro diverse modalità di espletamento dell'attività lavorativa.
Inoltre, i dipendenti di datori di lavoro possono richiedere, per gravi e documentati motivi familiari, fra cui le patologie individuate con provvedimento interministeriale, un periodo di congedo, continuativo o frazionato, non superiore a due anni. Durante tale periodo il dipendente conserva il posto di lavoro, non ha diritto alla retribuzione e non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa.

Nel caso di specie, viceversa, emergeva dalla relazione investigativa disposta dal datore di lavoro, che il lavoratore durante i giorni di congedo si recava con costante e precisa osservanza di orari al lavoro presso una società di cui era amministratore e responsabile della gestione tecnica.
Da qui il licenziamento, impugnato senza successo dal lavoratore con procedimento ex lege 92/2012. La Corte d'Appello di Roma respingeva il reclamo ed escludeva, in primo luogo, la necessità di pubblicità del codice disciplinare in relazione a condotte che concretizzassero violazione di norme penali o contrasto con il cosiddetto minimo etico. La Corte d'Appellonegavainoltre anche la natura ritorsiva del recesso e non ammetteva la prova testimoniale.
Il ricorso per cassazionedel lavoratore licenziato, sostanzialmente riproponeva le censuregià avanzate in secondo grado in ordine all'inidoneità della relazione investigativa ad assurgere ad elemento di prova ed alla mancata ammissione della prova testimoniale.
La Corte di Cassazione riteneva invece del tutto legittimi i controlli disposti dal datore di lavoro in quanto giustificati dal sospetto della perpetrazione di illeciti, effettuati fuori dell'orario di lavoro ed addirittura in fase di sospensione dell'obbligazione principale di rendere la prestazione e non riconducibili al mero inadempimento. Il ricorso del lavoratore veniva quindi respinto.
La sentenza in commento conferma l'orientamento secondo cui le disposizioni dello Statuto dei Lavoratori che delimitano - a tutela della libertà e dignità del lavoratore - la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi - e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza dell'attività lavorativa (art. 3) - non precludono il potere dell'imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti, quali, nella specie, un'agenzia investigativa, per controllare l'adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, ai sensi degli art. 2086 e 2104 c.c., direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica. Tuttavia, il controllo di un'agenzia investigativa, non può riguardare, in nessun caso, né l'adempimento, né l'inadempimento dell'obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera.L'inadempimento è riconducibile, come l'adempimento, all'attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza ed invece il controllo deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione. (cfr. anche Cass. civ., sez. lav., 3 novembre 1997, n. 10761).
In altri termini, le disposizioni dell'art. 2 dello Statuto, limitano la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, ma non impediscono a quest'ultimo di ricorrere ad agenzie investigative, purché queste non sconfinino nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata dall'art. 3 dello Statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori. Resta giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione. (cfr. Cass. 14.2.2011 n.3590).
Per giurisprudenzacostante della Cassazione, l'attivazione di controlli occulti, in particolar modo attraverso l'utilizzo di agenzie investigative, non presuppone necessariamente che gli illeciti siano già stati commessi ma è sufficiente il sospetto o anche la mera ipotesi che gli illeciti siano in corso di esecuzione (Cass. 18821 del 9 luglio 2008; Cass. 12489 del 8 giugno 2011) ed anche in questo la sentenza in commento si uniforma all'orientamento consolidato.
Altro tema affrontato dalla sentenza 6839 è quello riguardante l'onere probatorio. Il ricorrente aveva dedotto l'erronea applicazione delle regole in tema perché la Corte d'appello si sarebbe limitata ad accertare gli spostamenti del lavoratore licenziato, ma non l'effettivo svolgimento di attività lavorativa, unica circostanza che potrebbe dar luogo all'addebito. Sul punto la Cassazione ha osservato che la sentenza impugnata aveva valutato non solo il contenuto della relazione, ma anche le circostanze (sostanzialmente incontestate) rappresentate dal ruolo svolto dal ricorrente all'interno della società presso cui si recava a lavorare e dall'assenza di ogni giustificazione in relazione ai movimenti registrati.
La Corte ha ritenuto che quelli indicati fossero plurimi elementi di giudizio in relazione ai quali fosse stato condotto in sede di appello un ragionamento presuntivo condivisibile, corretto sul piano logico e confermato quindi nel giudizio di cassazione.
Sul piano della giusta causa la Corte ha infine ritenuto, con statuizione ineccepibile, che l'utilizzo di un congedo familiare per lo svolgimento di altra attività lavorativa si ponesse in violazione di una specifica previsione di legge oltre che dei fondamentali doveri di lealtà e fedeltà scaturenti dal rapporto di lavoro.

Avv. Marcello Floris
Corresponsabile del dipartimento di Diritto del Lavoro dello studio Eversheds Sutherland in Italia

 

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