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     n. 11 anno 2018

Il paracadute del lavoratore in esubero ed i limiti al “ripescaggio”

di Edgardo Ratti

di Edgardo Ratti

Le aziende continuano a ristrutturarsi: a volte perché schiacciate dalla crisi, a volte per ricercare, magari in modo più mirato e chirurgico, maggiore efficienza e competitività in determinati comparti.

Il tema della gestione degli esuberi rimane quindi un nodo essenziale del diritto del lavoro e l'istituto del licenziamento per giustificato motivo oggettivo assume un ruolo fondamentale in ciò.

L'istituto ha subito notevoli evoluzioni nel tempo perché la stessa nozione di "riorganizzazione" risente di un approccio prima sociologico che giuridico: il concetto di crisi, efficienza, competitività non sono infatti nozioni statiche ma dinamiche e figlie dei tempi.

E così ha subito notevoli evoluzioni anche il concetto di ripescaggio del lavoratore la cui posizione risulta in esubero ossia il cd. obbligo di repechage.

Il repechage ha un'importanza fondamentale nell'ambito della tenuta del licenziamento per giustificato motivo oggettivo perché, stressando il concetto per cui quest'ultimo deve rappresentare l'extrema ratio, impone al datore di lavoro di licenziare il lavoratore solo una volta che abbia verificato l'impossibilità di adibirlo ad un'altra posizione lavorativa disponibile in azienda.

Il repechage è quindi lo scoglio sul quale spesso si infrange il licenziamento per ragioni oggettive, con tutte le ben note conseguenze risarcitorie (e non solo) del caso.

Ampliare o limitare il concetto di repechage non è pertanto operazione neutra ai fini di dare corso al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

I giudici del lavoro hanno fornito, nel corso del tempo, molteplici (e tra loro dissonanti) interpretazioni del concetto di repechage: ripercorrerle tutte sarebbe impossibile.

Quello che qui preme evidenziare è come da ultimo risulti predominante l'indirizzo giurisprudenziale, affermato anche dalla recentissima sentenza della Cassazione n. 11413 dell'11 maggio 2018, secondo cui il "ripescaggio" del lavoratore può avvenire solo laddove in azienda sia disponibile una posizione lavorativa che risulti in linea, dal punto di vista del corredo professionale, rispetto al profilo del licenziando. In parole povere, il repechage deve consentire al datore di lavoro di reimpiegare utilmente il lavoratore in esubero; il ché all'evidenza può accadere solo ove quest'ultimo sia in grado, come capacità professionale, di svolgere proficuamente le nuove mansioni.

Il principio può sembrare scontato ma non è così: vi sono infatti state pronunce che, soprattutto a valle della modifica dell'art. 2103 c.c., hanno propugnatol'insegnamento per cui il datore di lavoro, in presenza di un lavoratore eccedentario da licenziare per giustificato motivo oggettivo, deve verificare la sussistenza, nell'ambito dell'intera azienda, non più solo di posizioni professionalmente equivalenti (e sin qui è pacifico) ma addirittura di eventuali posizioni vacanti riconducibili allo stesso livello della categoria legale di inquadramento o finanche a quello inferiore.

Sganciare il concetto di repechage da quello della fruibilità, e quindi utilità, per il datore di lavoro della ricollocazione del lavoratore in esubero significa, per lo meno di fatto, sconfessare la libertà datoriale di organizzarsi al meglio e ciò, tanto più in tempi come quelli attuali, può risultare piuttosto pericoloso per tutti, lavoratori stessi inclusi: il recente orientamento giurisprudenziale pare averlo compreso.

Avv. Edgardo Ratti, Partner di Littler

 

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