n. 13 anno 2020
Il divieto di licenziamento ulteriormente prorogato. Ma siamo davvero sicuri sia utile (oltre che legittimo) ?
di Luca Failla
Complice e grazie allo stato pandemico in atto, sembra stia passando sotto silenzio - ed anzi quasi accettata con rassegnazione - una norma abbastanza discutibile già inserita nel Decreto cd. Cura Italia (D.L. 18/2020 poi convertito in Legge 24 aprile 2020, n. 27) ed oggi modificata a seguito del cd. Decreto Rilancio (già aprile poi maggio) finalmente pubblicato in Gazzetta in questi giorni.
Mi riferisco al divieto di licenziamento sia individuale che collettivo per ragioni economiche, eccezionalmente previsto per il limitato periodo di 60 giorni in piena pandemia (art. 46, Decreto cura Italia cit.) ma che oggi - grazie al cd. D.L. rilancio - vede innalzata la sua complessiva durata in 5 mesi, così prorogando di ulteriori 3 mesi il periodo iniziale, con termine cioè sino al 17 agosto 2020.
Se convertito in legge, come tutti immaginano, tale divieto diverrà definitivo, impedendo così alle Aziende di risolvere i rapporti di lavoro sia collettivi che individuali (ad eccezione di poche e limitate ipotesi quali il licenziamento disciplinare, il superamento del periodo di comporto ed il recesso in prova) sino a quella data.
Avevo già scritto (si veda mio articolo su MAG di Marzo 2020, Il divieto di licenziamento in tempo di guerra (alla pandemia) che tale norma anche nella sua formulazione iniziale appariva abbastanza discutibile sotto il profilo della tenuta costituzionale, impattando in modo evidente sul principio di libertà economica privata garantito dalla Costituzione all'art. 41, fra cui certamente rientra anche la libertà di disporre della propria organizzazione produttiva e della quantità della forza-lavoro necessaria per l'esercizio della attività economica, compreso ovviamente il diritto di poter ridurre la stessa tramite licenziamenti se a ciò giustificati dalla situazione di mercato e/o dalla contrazione dei servizi e delle attività richieste come certamente capita ora a causa della pandemia da Covid 19.
Questa mia iniziale perplessità diventa convinzione definitiva oggi per una serie di motivazioni che andrò qui brevemente ad esprimere.
Le perplessità alla base di tale divieto. La possibile violazione dell'art. 41 Cost.
Se infatti tale divieto temporaneamente fissato in 60 giorni nella fase inziale diciamo cosi "calda" della crisi che aveva sorpreso una Italia totalmente impreparata (nonostante lo stato di emergenza solennemente proclamato dal Governo sin dal 31 Gennaio) ed era parso "accettabile" appunto in quella e particolare situazione di lockdown totale, lo stesso non si può certamente dire oggi laddove siamo entrati nella cd. fase 2 della riapertura, seppure graduale, della nostra vita, adesso che la fase calda fortunatamente appare superata ed in cui quasi tutte le aziende potranno riprendere la propria attività seppure con le limitazioni imposte dall'osservanza delle misure anti contagio.
Se così stanno le cose un divieto di licenziamento prorogato per altri tre mesi (proprio per il suo indubbio impatto sul principio di libertà di iniziativa economica privata tutelato costituzionalmente dall'art. 41 Cost. non va dimenticato) non pare essere sostenuto in primo luogo da una razionalità concreta né dalla tutela di un altrettanto significativo principio costituzionalmente tutelato.
Sia ben chiaro, a nessuno può fare piacere la prospettiva che aziende in crisi a causa della pandemia siano obbligate a licenziare propri dipendenti (si pensi alle aziende che hanno sofferto il lock down integrale, quali quelle della ristorazione, commercio e turismo e potranno riaprire solo nelle prossime settimane a condizioni tali che, come molti sostengono, ne sconsigliano la riapertura da un punto di vista dei costi insostituibili ad essa collegata) ma una cosa è il sentimento di solidarietà sociale altra è la valutazione giuridica che nel nostro ruolo di legali e giuristi siamo chiamati a fare.
Ed applicando tali criteri mi pare francamente insuperabile la illegittimità costituzionale di tale divieto oggi reiterato alle aziende italiane.
Le ragioni politico-sociali sottese alla norma.
Di fatto, con la norma in esame, il Governo sta chiedendo alle aziende operanti in Italia di farsi carico delle conseguenze socio economiche della crisi, sostenendo i costi della forza lavoro improduttiva (e cioè eccedente rispetto alle oggi ridotte capacità produttive) in una grave situazione di crisi del mercato e della nostra economia (le stime sulla caduta del PIL italiano secondo taluni sono oscillanti intorno al 8/9.5 % al momento, ma anche maggiori in alcuni settori particolarmente colpiti quali la ristorazione, turismo e commercio che hanno sofferto e ancora stanno soffrendo gli effetti negativi del lockdown prolungato).
Sono notizie ormai di questi giorni ormai i licenziamenti già annunciati da importanti aziende straniere sia all'estero (si veda Air Canada che ha annunciato 20.000 licenziamenti, cosi Easy Jet con la riduzione del 25% della forza lavoro e cosi anche la famosa catena Airnb) che in Italia (la famosa catena H&M in aprile ha già annunciato la chiusura di ben 7 stores in Italia).
Come avevo già evidenziato, trattasi di una norma eccezionale che in Italia ha visto solo una volta la sua applicazione di cui andrebbe misurato proprio per il suo impatto sul nostro ordinamento del lavoro (abbiamo un solo precedente in tutta la nostra storia dell'istituto in questo ambito - peraltro collegato ad un vero stato di guerra - l'art. 1 del D.Lgs Lgt 21 agosto 1945, n. 523 che, subito dopo la guerra, sospese i licenziamenti fino al 30 settembre 1945 ma lì non c'era ancora la Costituzione con l'art. 41).
Il Governo invece senza una particolare dibattito sulla stampa mi pare e in un clima di consenso consociativo forzato (mi sbaglierò) ha deciso di reiterare il divieto, allungando addirittura a 5 i mesi della sua durata.
Ma la strada mi pare totalmente sbagliata ed improduttiva.
Un conto infatti è persuadere le aziende a non licenziare (offrendo denaro e/o sovvenzioni o finanziamenti come avvenuto nel Decreto Legge n. 23/2020 -laddove i finanziamenti garantiti da Sace (art. 1, comma 2) comportano un divieto indiretto di licenziamento attraverso l'obbligo di discutere e concordare con le organizzazioni sindacali decisioni che possano impattare (come il licenziamenti) sulla quantità della forza lavoro e dei livelli occupazionali (ne ho già scritto su un articolo che si può trovare su Linkedin dal titolo Il Diavolo si annida nei dettagli. Le misure di liquidità a sostegno delle imprese nel D.L.23/2020: se prendi i soldi non puoi più licenziare cui rimando per approfondimenti del tema).
E' evidente infatti che per aziende che liberamente decideranno di fruire ancora nei prossimi mesi della Cassa integrazione scatti automaticamente la sospensione dei licenziamenti collettivi nelle aree interessate dalla riduzione del lavoro e della produzione, ma è evidente che questa è cosa assai diversa, trattandosi di una scelta libera delle aziende di fruire o meno di ammortizzatori sociali sostenuti dallo Stato.
Altro è invece, a prescindere dalla fruizione concreta di finanziamenti garantiti dallo Stato, obbligare per legge le aziende operanti in Italia a farsi carico dei costi sociali della crisi tout court, sopportando i costi diretti del proprio personale eccedente seppure inutilizzato per un periodo (ad oggi) di 5 mesi (se questo divieto non verrà ulteriormente prorogato, chissà).
Se tale ragionamento, infatti, può valere per le aziende di cui sopra, di certo non tiene per le aziende che non ritengano percorribile tale strada, troppo pesanti essendo le conseguenze di una crisi di mercato provata dalla Pandemia e non ritenendo percorribile, stante la gravità della crisi e delle conseguenze negative ad oggi prodotte in termini di calo di fatturato e di previsioni negative per i prossimi mesi, la fruizione di ammortizzatori sociali, bensì ritenendo obbligata la strada della chiusura di attività o della riduzione di personale.
In questa ipotesi il divieto di licenziamento imposto per norma imperativa non appare in alcun modo giustificato né consentito dal bilanciamento di interessi in gioco sicuramente quello delle aziende tutelato dall'art. 41 Cost.
Si dirà che il Governo abbia inteso "bilanciare" tale obbligo/costo imposto alle aziende con la reiterata fruizione (che diventa imposizione forzata...a questo punto) degli strumenti degli ammortizzatori sociali (cassa Integrazione) prolungati per ulteriori 5 settimane, rispetto alle iniziali 9 inizialmente previste (14 solo per alcune regioni).
Ma le cose non stanno cosi.
Infatti sotto anche un profilo puramente "aritmetico", il ragionamento non tiene, essendo evidente che non può ritenersi bilanciato il divieto di licenziamento per ulteriori 3 mesi (12 settimane) a fronte (solo) da ulteriori 5 settimane di ammortizzatori sociali ove anche concretamente fruiti dalle aziende (diversamente dalla fase "calda" in cui il divieto era stato fissato in 60 giorni a fronte di 9 settimane di fruizione degli ammortizzatori sociali, bilanciandosi così il sacrificio imposto alle aziende).
Si è sostenuto anche che tale divieto sarebbe giustificato dal principio di tutela della sicurezza delle persone e dei lavoratori riconosciuto dall'art 32 della Costituzione (che tutela la salute dei cittadini in verità e non specificamente quella dei lavoratori).
Il rilievo non mi pare in alcun modo giustificato né calzante.
E ciò perché in alcun modo la salute dei lavoratori licenziati entra in gioco nell'ipotesi di licenziamento (ad eccezione ovviamente per i lavoratori in malattia che proprio per questa situazione particolare di debolezza anche contrattuale, vedono correttamente sospeso il proprio licenziamento sino alla cessazione del periodo di infermità) bensì semmai la propria capacità di reddito, opportunamente sostenuta dalla Naspi che ovviamente non viene meno.
L'art. 32 dovrebbe essere semmai invocato (ed infatti alcune forze sindacali e politiche lo hanno sostenuto) unicamente per impedire il rientro al lavoro in aziende, e ciò sino a quando la pandemia non fosse cessata, ritenendo qui sì il principio di tutela della salute dei lavoratori prioritario rispetto a quello di iniziativa economica privata delle aziende a riprendere la attività ex art. 41 Cost. (da taluni esponenti politici infatti si è addirittura parlato, senza alcun fondamento né logica, di aziende "accecate dal Dio denaro").
Ma sicuramente il principio di tutela della salute ex art. 32 Cost. non può venire in gioco ad impedire scelte organizzative, seppure dolorose, delle aziende per fronteggiare la difficile crisi economica e di mercato che la Pandemia da Covid 19 ha inevitabilmente prodotto ed inevitabilmente produrrà nei prossimi mesi soprattutto in autunno come tutti gli indicatori paiono rilevare.
Possibili soluzioni pratico-operative.
Che fare allora ? parafrasando un altro e ben più rivoluzionario interrogativo.
Sotto un profilo pratico molte aziende sicuramente aspetteranno il 18 agosto per dare avvio alle procedure individuali di licenziamento (ex art. 7. L. 604/66) che collettive exLege 223/91).
Altre invece, è dato questo di esperienza, stanno anticipando ai lavoratori interessati la imminente soppressione della posizione cosi da raggiungere intese transattive anche nel periodo della "moratoria", anticipando gli effetti della risoluzione del rapporto (niente vieta che sull'accordo delle parti le stesse possano anche conciliare licenziamenti intimati nel periodo di divieto infatti).
Qualora tali strade risultino impraticabili, se si ritiene incostituzionale tale reiterato divieto - come io sostengo - ne deriva che per i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo intimati da qui al 18 agosto 2020 la questione di illegittimità costituzionale del divieto possa essere sollevata in via preliminare nelle cause di impugnazione del licenziamento avanti ai giudici del lavoro.
Tale eccezione avrebbe poi il beneficio, se accolta, di sospendere il giudizio di impugnazione con rimessione degli atti alla Corte Costituzionale, ferma restando ovviamente la legittimità del licenziamento intimato, e facilitando così sicuramente la composizione economica in via transattiva della dolorosa vicenda.
In difetto di accoglimento di tale eccezione, va considerato che ne discenderebbe tuttavia la illegittimità del recesso intimato ante 18 agosto con la reintegrazione formale del lavoratore (per nullità del recesso per violazione di norma imperativa), effetto questo che potrebbe essere tuttavia paralizzato dalla intimazione in via cautelativa, come spesso avviene in vicende delicate e complesse similari, di un secondo licenziamento per gli stessi motivi successivo al 17 agosto 2020 cosi da "congelare" in ogni caso la intervenuta risoluzione del rapporto.
Più complessa potrebbe apparire la gestione delle procedure collettive, che restano sospese per tutta la durata del periodo considerato (art. 46 cit.) con l'immaginabile rifiuto delle organizzazioni sindacali di avviare una trattativa ex Lege 223/91 ovvero di reagire con la proposizione di un ricorso ex art. 28 Statuto dei lavoratori a fronte di procedure di riduzione di personale formalmente aperte ex Lege 223/91.
Questo certamente sotto un profilo formale.
Ma niente impedisce, anche qui, alle aziende che debbano fronteggiare dolorose ma imprescindibili situazioni di riduzione di personale in questo periodo di avviare materialmente con organizzazioni sindacali di buon senso un dialogo "anticipatorio" finalizzato, appena possibile, e cioè a far data dal 18 agosto (se non ulteriormente prorogato beninteso), l'apertura formale di una procedura di riduzione di personale, così da implementare le situazioni nel frattempo discusse ed eventualmente concordate.
In altre parole, niente vieta alle aziende di "portarsi avanti", guadagnando tempo prezioso.
Conclusioni. I divieti non hanno mai funzionato.
L'esperienza di vicende simili mi porta a pensare che tale periodo di "quarantena legale" potrebbe essere certamente utilizzato dalle imprese innanzitutto per anticipare la trattativa e trovare, se possibile, intese vantaggiose come sempre nell'interesse di tutti i soggetti coinvolti.
D'altronde, tutto si potrà dire e fare, ma certamente nessuno potrà sognarsi di negare un problema occupazionale che si presenta oggi drammatico nella sua dimensione sia per le aziende sia per i lavoratori.
Non spetta certo alle aziende dover governare la crisi sociale scatenata dalla Pandemia, è lo Stato che deve farsi carico di sostenere i lavoratori che perderanno il lavoro nei prossimi mesi, immaginando percorsi di ricollocazione e riqualificazione ove necessari (eventualmente facendo tesoro della fallimentare esperienza dei navigator).
I divieti legali non possono essere la risposta corretta a situazioni di crisi oggettive, che possono solo ritardare gli effetti negativi, e mai impedirli.
Pensare diversamente significa negare la realtà.
Ps. Questo articolo era già scritto quando recenti interviste sulla stampa mi hanno portato ad aggiungere questo veloce post scriptum. In un'intervista su La Stampa del 1 giugno il segretario generale della CGIL ha lanciato l'idea di un nuovo contratto sociale siglato dalle imprese che dovrebbe prevedere, oltre alla proroga degli ammortizzatori sociali, anche la proroga del divieto di licenziamento ben oltre il 18 agosto 2020.
Ebbene da questa idea traggo la considerazione che anche la maggiore organizzazione sindacale pare ormai consapevole che una ulteriore proroga per legge del divieto sia impraticabile, forse anche per la evidente incostituzionalità di tale divieto come evidenziato sopra. Da qui qui l'idea di Landini che le aziende possano "autolimitarsi" pattiziamente con un nuovo contratto sociale - immagino - siglato dalla maggiore associazione imprenditoriale Confindustria (magari poi seguita anche da altre) e quindi a valere a "cascata" su tutte le aziende associate in forza del vincolo associativo.
Mi pare una idea dal fiato corto.
Da un lato perché mi pare difficile che qualche associazione imprenditoriale possa decidere di assumere un tale impegno cosi dirompente a carico dei propri associati in un momento di così forte crisi del mercato e dall'altro perché, in ogni caso, tale impegno potrebbe vincolare unicamente le imprese associate (ma non evidentementele imprese non aderenti alla associazione). E da ultimo perché un tale impegno pattiziamente assunto sarebbe facilmente aggirabile da parte delle stesse aziende associate, esercitando il recesso dalla associazione di appartenenza. Cosa che - temo - avverrebbe molto in fretta.
Insomma un rimedio peggiore del male.
Luca Failla, Founding Partner Lablaw Studio Legale, Failla Rotondi & Partners