n. 8 anno 2021
Mettere fine allo smartworking?
Una domanda per riflettere sul senso del lavoro
di Gabriele Gabrielli
Pianificare il ritorno al lavoro in ufficio oppure no? Attorno a questa domanda si sta sviluppando una ricca discussione tra Ceo, imprenditori e manager. Alcuni (il numero sta crescendo soprattutto oltre oceano) pensano sia ora di mettere fine allo smart working che ha dominato la scena in questi mesi. Tra questi c'è l'amministratore delegato di Goldman Sachs, David Solomon, che ha dichiarato: "È un'aberrazione che correggeremo il più rapidamente possibile". Altri invece stanno valutando se e come stabilizzare il lavoro da remoto. Le ipotesi in discussione sono diverse, possiamo semplificarle - consapevoli di fare un'opera di riduzionismo della ben più articolata realtà - raccogliendole in alcuni filoni.
Il primo segnala il folto numero delle aziende che intendono valorizzare l'esperienza fatta sin qui e patrimonializzare i benefici del lavoro remoto. Per questo pensano a configurazioni organizzative di natura "mista", che prevedano alcuni giorni in cui il lavoro sarà svolto in presenza e altri in cui sarà richiesto e reso a distanza. È il modello della «preStanza» come l'ho chiamato in un precedente scritto. Le quantità di impegno lavorativo da allocare a distanza e in presenza varia su base settimanale lasciando intravvedere differenti schemi possibili: per esempio tre giorni in presenza e due a distanza o quelli più conservativi (o nostalgici) che immaginano il lavoro da remoto solo un giorno a settimana.
Il secondo filone aggrega invece le imprese che auspicano con toni più decisi il ritorno del lavoro in azienda, scegliendola come modalità "ufficiale" di organizzazione del lavoro, lasciando al tempo stesso ai lavoratori la possibilità di continuare a lavorare da remoto come hanno fatto sin qui. In questa direzione sembra muoversi Google che sta pianificando il "ritorno volontario massiccio" in ufficio dal prossimo settembre per tre giorni a settimana.
In verità c'è anche un terzo filone di comportamenti, è quello che annovera le imprese, possiamo chiamarle più estremiste, che si lanciano nella costruzione di scenari dove l'ufficio non c'è più perché tutti dovranno lavorare da remoto. Punto e a capo. È il caso di Spotify, raccontato dal progetto Work From Anywhere (WFA), che in un comunicato stampa scrive: "Il lavoro non è qualcosa per cui i nostri dipendenti vengono in ufficio, è qualcosa che fanno".
Questa posizione merita una riflessione perché segnala la questione che sta al fondo della discussione, ossia il "senso" che si attribuisce al lavoro. Liquidare la ricchezza di significati che ha il lavoro riducendolo a un "fare" ci pare getti discredito su un bene che ha anche altri e preziosi significati, non ultimo quello di essere strumento di socialità e mezzo per costruire legami. Nel comunicato stampa della svedese Spotify troviamo altre ragioni su cui poggia il pensiero dell'azienda. Interessante è quella di voler supportare - si scrive - "un migliore equilibrio tra vita professionale e vita privata", nella consapevolezza che questa filosofia "aiuterà anche ad attingere a nuovi pool di talenti mantenendo i membri della nostra band esistenti". Lavorare "dove si vuole" diventa in definitiva una componente importante della people value proposition dell'impresa per continuare ad attrarre le nuove generazioni. Non conosciamo su quali ricerche l'azienda fondi questa convinzione, l'atteggiamento dei giovani verso il lavoro però non è così univoco. Ci sono ricerche empiriche sulla Generazione Z che mostrano, insieme a un atteggiamento positivo dei più giovani verso l'uso della tecnologia che abilita il lavoro "fuori dall'ufficio", anche la preferenza verso imprese che consentono alle persone di incontrarsi e lavorare in team. Una ricerca della Fondazione Lavoroperlapersona (Gabrielli G., Profili S., Sammarra A., "La generazione Zeta sfida la leadership delle imprese. Come prepararsi?, in Harvard Business Review Italia, giugno 2019) evidenzia per esempio che, a parità di condizioni economiche con altri lavori interessanti fra cui poter scegliere, il 55% del campione di giovani appartenenti alla generazione Z che ha partecipato allo studio è propensa a scartare un'offerta di lavoro se il contesto "Richiede di lavorare sempre o per gran parte del tempo da casa (telelavoro)". Un dato che supporta l'idea che il lavoro è molto di più che un "fare" e un fare per giunta con modalità che creano senso di isolamento.
Le scelte che verranno fatte nei prossimi mesi, insieme alle preferenze dei lavoratori sulle quali c'è ancora una ricerca frammentata, ci diranno molto sul senso che le imprese attribuiscono al lavoro e ci restituiranno un'immagine del valore che ha per le persone. Pensiamo che questo terreno continua a rappresentare un campo decisivo sul quale investire.
Gabriele Gabrielli, Imprenditore, executive coach e consulente è Consigliere delegato di People Management Lab S.r.l Società Benefit e BCorp certificata. Ideatore, co-fondatore e presidente della Fondazione Lavoroperlapersona, insegna Organizzazione e gestione delle risorse umane e People Management e Reward all'Università Luiss Guido Carli. Il suo ultimo libro è: (a cura di), Allenarsi per il futuro Sfide manageriali del XXI secolo, FrancoAngeli, 2021.