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     n. 21 anno 2024

Il caso IOR ed il licenziamento dei dipendenti a causa di matrimonio vietato tra colleghi. Qualche riflessione a margine

di Luca Failla

di Luca Failla

È recente la notizia apparsa sulla stampa che due dipendenti italiani dell'Istituto per le Opere di Religione (IOR), comunemente conosciuto come la “Banca Vaticana”, rischierebbero il posto di lavoro perché, innamoratisi sul luogo di lavoro, hanno deciso poi di convolare a nozze (pare anche con rito canonico).
Dalla ricostruzione, i due si sarebbero sposati allorché non esisteva alcuna norma che vietasse formalmente il matrimonio tra colleghi all'interno dell'Istituto. Sennonché, lo IOR, successivamente al matrimonio, avrebbe introdotto il nuovo regolamento penalizzando direttamente i due malcapitati coniugi.
La nuova norma – stando sempre alle notizie apparse - richiederebbe, a pena di licenziamento, ai dipendenti sposati di interrompere il rapporto lavorativo entro 30 giorni dalla celebrazione del matrimonio, lasciando cosi ai coniugi la scelta di chi debba lasciare il lavoro. 
Tale regolamento non può che sollevare perplessità circa la legittimità “retroattiva” dell’azione dell’Istituto, dal momento che, a tacer d’altro, quando il matrimonio fu contratto il regolamento in questione neppure era ancora in vigore.
Nel merito poi, il regolamento IOR nella nuova formulazione vieterebbe espressamente, sia l'assunzione che il mantenimento in servizio (cosi consentendone il licenziamento) di coniugi, consanguinei fino al quarto grado e affini di primo e secondo grado, secondo il computo canonico.
La vicenda dei due coniugi impiegati, che ha raggiunto l’Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica (ULSA), mette in luce la rigidità delle norme interne allo IOR, dove, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non si guarda di buon occhio al matrimonio tra colleghi.
Il regolamento, nato probabilmente per evitare conflitti di interesse o favoritismi, finisce infatti per trasformarsi in un vero e proprio ostacolo alla vita personale ed affettiva dei dipendenti.
In questo contesto, la questione appare ancor più controversa se confrontata con le politiche normalmente adottate dalle aziende anche nel nostro paese.

Le policies aziendali sulle relazioni affettive
L’attenzione qui si sposta così su una tematica che, nel mondo del lavoro, sta guadagnando sempre più rilievo e cioè quella della legittimità delle policies aziendali che regolamentano (o pretendono di farlo) le relazioni sentimentali tra colleghi sui luoghi di lavoro.
In molte multinazionali, specialmente di matrice anglosassone o nord-europea, si è diffusa la prassi di adottare regolamenti interni che scoraggiano o disincentivano il formarsi di legami affettivi tra dipendenti, soprattutto quando vi è una relazione gerarchica fra gli stessi.
Questo tipo di politiche, pensato ovviamente per prevenire favoritismi e conflitti di interesse a danno dell’azienda, solleva inevitabilmente questioni relative al diritto alla privacy dei lavoratori e all’autodeterminazione sentimentale, in un’epoca in cui tale ultimo diritto è difficilmente ritenuto suscettibile di contrazioni.
In genere, queste policies richiedono ai dipendenti di dichiarare formalmente l’esistenza della relazione sentimentale ai propri superiori o alle risorse umane, al fine di permettere all'azienda di prendere eventuali provvedimenti organizzativi, come la separazione dei partners in reparti diversi o aree aziendali differenti.
L’obiettivo dichiarato è quello di garantire che le decisioni aziendali relative a promozioni, premi o avanzamenti di carriera siano basate esclusivamente su criteri meritocratici e professionali, scongiurando così favoritismi che potrebbero derivare da legami personali ed affettivi fra dipendenti coinvolti.
Queste politiche di “disclosure”, tuttavia, pongono un problema evidente che abbiamo già sollevato in altri interventi: fino a che punto un’azienda può spingersi nel regolamentare la vita privata dei propri dipendenti, imponendo un obbligo di disclosure che appare difficilmente conciliabile con la privacy dei diretti interessati ? 
Se da un lato, infatti, è legittimo cercare di prevenire conflitti di interesse, dall’altro imporre la divulgazione di informazioni strettamente personali, come le relazioni sentimentali, può rappresentare una violazione della sfera privata dei lavoratori.

La situazione italiana
In Italia, il tema è particolarmente delicato.
Il nostro ordinamento giuridico tutela, infatti, in maniera rigorosa la privacy dei lavoratori, come sancito dal Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) e dallo Statuto dei Lavoratori (L. n. 300/1970). 
Certamente l’informazione relativa alla esistenza o meno di una relazione affettiva di un dipendente costituisce un “dato” personale che deve essere trattato dal datore di lavoro, se conosciuto, nel rispetto della normativa vigente in tema di Protezione dei Dati (tra cui certamente liceità, continenza e pertinenza).
L’articolo 8 dello Statuto, inoltre, vieta espressamente al datore di lavoro di svolgere indagini su opinioni politiche, religiose o su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore, tra cui rientrano in via generale anche le eventuali relazioni sentimentali sorte nei luoghi di lavoro.
Tuttavia, nonostante queste tutele, il confine tra sfera privata e professionale non è sempre facile da tracciare. 
Molte aziende giustificano l'adozione di tali policies con la necessità di garantire trasparenza e di evitare situazioni di favoritismo, che potrebbero minare la fiducia dei dipendenti e il corretto funzionamento dell’azienda. 
E sul tema manca ancora allo stato una giurisprudenza consolidata che offra linee guida chiare su come trattare questi casi.
Sul punto vi è un’interessante sentenza di merito del Tribunale di Roma (Tribunale di Roma, sez. lavoro, R.G. 22884/2021), in cui viene confermata la legittimità del licenziamento irrogato ad un dipendente per avere quest’ultimo intrattenuto una relazione sentimentale con una collega allo stesso gerarchicamente subordinata senza segnalare tale circostanza all’azienda come invece imponeva la policy aziendale e il codice etico vigenti,  ma soprattutto per avere quest’ultimo indotto la collega, ponendola in uno stato di soggezione psicologica in violazione dell’art. 2087 c.c., a tacere all’azienda il proprio stato di gravidanza (invitandola anzi ad interromperla così da non ostacolare il proprio avanzamento di carriera…) inducendola, infine, con pressioni a rassegnare le dimissioni per trovare occupazione presso una società competitor.
Da precisare che nel caso in esame la policy aziendale non vietava in sé l’instaurazione di una relazione sentimentale tra colleghi o l’assunzione di persone legate da un vincolo di parentela, prevedendo tuttavia  che “le persone con stretti rapporti di parentela o relazioni personali tra di loro non possano essere assegnati al medesimo cliente o incarico”, mentre il codice etico prevedeva che i lavoratori “sono tenuti ad evitare tutte le situazioni e tutte le attività in cui si possa manifestare un conflitto con gli interessi della Società […]”.
Il tutto al fine di “garantire che le relazioni personali strette e i rapporti di parentela non creino situazioni in cui membri dello Staff beneficino o soffrano a causa di una relazione personale o parentale dentro o fuori; sorgano questioni di riservatezza, indipendenza e conflitti di interesse, questi ultimi anche solo percepiti; risulti un reale e/o percepito nepotismo e/o favoritismo”.
Nel caso analizzato dal Tribunale di Roma, la legittimità del licenziamento è stata confermata non solo dal fatto che il ricorrente volontariamente aveva anteposto il proprio interesse personale di avanzamento di carriera rispetto agli interessi della società resistente (tra qui evidentemente anche quello di mantenere il rapporto di lavoro con la dipendente coinvolta, tutelandone la di lei salute e dignità), celando una situazione di potenziale conflitto di interessi in violazione dell'obbligo di disclosure e compromettendo la serenità sul luogo di lavoro con i componenti del proprio gruppo di lavoro (tale essendo la collega con la quale aveva intrapreso la relazione), ma anche perché ai sensi dell’art. 2087 c.c., il datore di lavoro deve vigilare affinché sul luogo di lavoro non vengano poste in essere condotte lesive della salute psico-fisica dei propri dipendenti, adottando tutte le misure necessarie al fine di garantire un clima sereno; condotte al contrario ritenute poste in essere dal proprio responsabile a danno della collega-fidanzata.

Conclusioni
Al di là del caso poc’anzi citato, resta sicuramente improbabile che l’introduzione di policies così severe, come quella in vigore presso IOR che facoltizza il licenziamento di dipendenti perché uniti da un vincolo sentimentale o matrimoniale, possa essere consentita all’interno dell’ordinamento giuslavoristico italiano.

Difatti, un conto è vietare comportamenti illeciti atti a favorire e/o preferire un dipendente a danno dell’azienda a causa di relazioni personalie/o affettive esistenti, altro conto è l’espulsione di un collaboratore qualora contragga matrimonio ovvero avvii una relazione sentimentale con un/a collega vietate da policies aziendali della cui legittimità è certamente lecito dubitare.

Una norma del genere non potrebbe considerarsi sicuramente legittima nel nostro ordinamento, in quanto sia il matrimonio in sé che una relazione affettiva non può essere considerato in sé un evento lesivo degli interessi dell’azienda in assenza di comprovati e specifici comportamenti in conflitto di interessi con l’azienda. 

In altri termini certamente il licenziamento potrà essere giustificato in presenza di favoritismi personali o conflitti di interessi realizzati dai dipendenti “fidanzati” ma non per la mera esistenza di una relazione sentimentale e tanto meno per il matrimonio allorché contratto, peraltro – come tutti sappiamo - tutelato espressamente per il caso di licenziamento dalla legislazione italiana. 

La vicenda dei due dipendenti dello IOR che perderanno il posto di lavoro per essersi sposati evidenzia come queste policies possano assumere forme estreme in contesti particolari di pretesa assolutezza.

Se è giustamente comprensibile la volontà del datore di lavoro di prevenire situazioni di conflitto di interesse a proprio danno (e che se realizzati possono anche condurre al licenziamento stante la rottura del vincolo fiduciario) l’applicazione rigida di una norma regolamentare che preveda il licenziamento di entrambi (o anche uno solo) dei coniugi pare davvero anacronistica e in contrasto, non solo con i principi di tutela della libertà personale, ma anche della Chiesa stessa, essendo il matrimonio – come tutti sanno - uno dei sacramenti della Chiesa cattolica.

Tornando all’Italia, se da un lato le aziende hanno certamente il diritto di prevenire situazioni di favoritismo e conflitti di interesse (così come di punire le condotte dei dipendenti a danno degli interessi aziendali) dall’altro devono essere rispettate la privacy e la dignità dei lavoratori, senza imporre regole eccessivamente intrusive ed assolute.

In un mondo del lavoro sempre più globalizzato, dove le multinazionali importano modelli di gestione delle risorse umane da contesti giuridici e culturali differenti, il rischio è quello di adottare in contesti differenti policies che non tengano conto delle peculiarità normative e culturali dei singoli paesi di effettiva applicazione.

La protezione dei diritti dei lavoratori, incluso il diritto alla privacy, è un principio fondamentale, che non può essere automaticamente sacrificato in nome della massima trasparenza aziendale cercata a qualunque costo.

La sfida per le aziende, dunque, è proprio quella di trovare un equilibrio tra la giusta necessità di mantenere imparzialità e meritocrazia ed il rispetto della libertà individuale dei lavoratori, senza scivolare in pratiche inutilmente invasive ove non discriminatorie.

Che poi, non va dimenticato, il contenzioso su questi temi è dietro l’angolo.

 

avv. Luca Failla
Managing partner Failla&Partners Studio Legale

 

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