n. 4 anno 2024
Le molestie sul lavoro nella lente giurisprudenziale: perchè sono importanti le circostanze fattuali e ambientali
di Giulietta Bergamaschi
L’art. 26 del Codice delle pari opportunità costruisce la definizione di molestia (generica o sessuale) in chiave vittimologica: la configurazione o meno di tale illecito, infatti, prescinde dall’intenzione dell’autore (che può anche agire per scherzo, ilarità o battuta) e viene sostanzialmente a dipendere da come un dato comportamento e la situazione ambientale che ne consegue vengono recepiti da chi li subisce.
Pertanto, si può parlare di molestia se la condotta posta in essere è: a) indesiderata; b) lesiva della dignità del destinatario; c) fonte di un clima percepito come intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.
La norma, quindi, declina con varie qualificazioni il “clima molesto”, ma al contempo non enuncia i criteri concreti in base ai quali accertarlo.
Si tratta di un aspetto di non poco conto, se pensiamo che la prospettiva vittimologica adottata dal Legislatore, se da un lato mira alla maggior tutela del soggetto debole, al contempo espone al rischio di far dipendere i confini della molestia esclusivamente dalla sensibilità della persona coinvolta (metro di giudizio forse troppo variabile, oltre che difficilmente sondabile con i mezzi processuali).
Dunque, per trovare un bilanciamento tra il “soggettivismo” della percezione individuale e un ancoraggio più concreto della fattispecie, può essere utile ragionare sugli elementi oggettivi da cui poter desumere la sussistenza di una molestia.
Alcuni spunti provengono dalla giurisprudenza (anche del lavoro), che ha ritenuto sussistenti casi di molestie andando al di là della singola condotta censurata, ossia ponendo in risalto anche alcune condizioni ambientali che ne hanno costituito lo “sfondo” o l’effetto conseguente. Prima fra tutte, viene in rilievo la sentenza n. 565/2023 (pubblicata il 30.10.2023) con cui la Corte d’ Appello di Venezia, a conferma della decisione del Tribunale di Verona n. 104/2020, ha ritenuto legittimo il licenziamento irrogato al restaurant manager di un parco giochi che aveva apostrofato un collega addetto alla cassa – notoriamente omosessuale – con l’appellativo “principessa”, muovendo le mani in modo effeminato e facendo una risata.
In tale occasione, gli elementi valorizzati dai Giudici di merito nel condividere la massima sanzione espulsiva sono stati: la posizione manageriale occupata dal ricorrente in azienda, che avrebbe dovuto indurlo ad astenersi da un simile comportamento e a proporre invece il giusto esempio al personale; ancora, il clima generato dalla condotta è stato ritenuto ostile e denigratorio non solo per lo svolgimento della scena in presenza degli avventori del locale, ma anche perché, dopo l’episodio, il collega offeso aveva chiesto il trasferimento.
Nell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 27363 del 26.9.2023, la vicenda trattata riguarda il capo del personale di una fondazione che dà una pacca sul sedere a una giovane collega a lui sottoposta, per poi invitarla a mostrare il fondoschiena a un altro collega perché quest’ultimo potesse esprimere degli apprezzamenti.
Anche in questo caso segue il licenziamento, che viene poi impugnato in Tribunale con soccombenza del lavoratore.
In particolare, in giudizio è stata esclusa la qualificazione della condotta in termini di mero scherzo o goliardia: si è infatti, valorizzato come tra le parti della molestia (visto il ruolo apicale dell’autore) vi fosse un rapporto strettamente gerarchico e connotato da assoluta formalità, e pertanto tra i due non poteva essersi delineato un clima cameratesco tale da originare (ed eventualmente “scriminare”) le condotte. Sempre nella stessa direzione è stato poi evidenziato come il ricorrente rivestisse anche le funzioni di Responsabile della Prevenzione e Corruzione e di Responsabile della Trasparenza, sicché era altresì investito di uno specifico ruolo di garanzia rispetto all’attuazione del Codice etico della fondazione. La sentenza della Corte di Cassazione n. 23295 del 31.7.2023 ha confermato la pronuncia della Corte d’Appello di Firenze n. 21 del 14.1.2020.
L’episodio riguarda l’addetto al bancone di un bar che un giorno, sfruttando la vicinanza fisica, dice più volte a una collega che avrebbe voluto toccarle il seno e compiere con lei anche altri atti sessuali, mimandoli anche con suoni.
In seguito al licenziamento del dipendente, questi procede all’impugnazione avanti il Tribunale, che però respinge il ricorso.
I Giudici, infatti, hanno ritenuto legittimo il recesso datoriale ritenendo opportuno evidenziare come, nel caso di specie, la vittima delle molestie, oltre a non aver mai ricambiato o incoraggiato questi atti, fosse anche in una condizione di «inferiorità» rispetto al collega, tenuto conto che era più giovane di lui di oltre 30 anni, si trovava alla prima esperienza lavorativa (aveva, dunque, un inquadramento inferiore) ed era stata appena assunta con contratto a termine.
E’ stato perciò ritenuto irrilevante che dall’istruttoria fosse emerso un clima aziendale caratterizzato da continui scherzi volgari e allusioni spinte: questa, infatti, era una prassi circoscritta soltanto ai colleghi di vecchia data e «alla pari» (coetanei e in un rapporto di reciproca e consolidata confidenza, perché tutti assunti da lungo tempo dalla stessa società), e pertanto non era un clima ipotizzabile tra il lavoratore licenziato e la collega molestata. Infine, menzioniamo l’ordinanza resa dalla Corte di Cassazione n. 4815 del 19.2.2019, con cui è stata confermata la decisione della Corte d’Appello di Venezia del 23.9.2014.
La vicenda qui esaminata riguarda il legale rappresentante di una società che in più occasioni ha apostrofato un dirigente con il termine “finocchio” per il suo presunto orientamento sessuale, e ciò anche davanti ad altri dipendenti con livello di inquadramento inferiore.
Il lavoratore cita in giudizio la Società per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale (dunque, questo processo non aveva ad oggetto un licenziamento), denunciando di aver subito per tali offese uno stato di ansia e stress, oltre che un pregiudizio alla vita di relazione, alla dignità e alla professionalità.
I Giudici di merito, accogliendo la domanda risarcitoria, hanno escluso che il termine “finocchio” più volte pronunciato fosse espressione di un clima lavorativo scherzoso/cameratesco, ritenendo piuttosto che l’uso di tale espressione costituisse una grave mancanza di rispetto lesiva della personalità morale del collega, specie considerato come egli, pur vantando una qualifica dirigenziale, fosse comunque in una posizione di inferiorità gerarchica rispetto all’offensore, che rappresentava il vertice aziendale.
In tale contesto, ai fini della valutazione del danno non patrimoniale si è tenuto conto, in particolare, di alcuni elementi, quali: il contenuto delle offese, la loro reiterazione, le loro modalità e i contesti sottesi, come anche il fatto che il danneggiato venisse chiamato «finocchio» davanti ad altri colleghi e in situazioni in cui non era in condizioni di reagire.
Conclusivamente, la lettura congiunta di tutte le pronunce che abbiamo citato ci porta senz’altro a calare i casi di molestia sul lavoro (o il rischio che questi si verifichino) nell’ambito di una dimensione concreta e ancorata a specifiche circostanze fattuali e dinamiche aziendali; elementi che, al di là della sola percezione della vittima, possono essere d’aiuto per individuare eventuali illeciti.
Occorre comprendere, infatti, come l’analisi sulla rilevanza della molestia possa poggiarsi anche su basi non propriamente psicologiche – soggettive, ma possa trarre spunto anche da fattori oggettivi, quali: la presenza o meno di un pubblico, l’età, l’anzianità aziendale, l’esistenza o meno di un rapporto gerarchico o di colleganza tra le parti, nonché i rispettivi ruoli ricoperti nell’organizzazione.
Tutti questi aspetti condizionano senz’altro le modalità con cui il datore di lavoro può efficacemente adempiere al proprio obbligo di prevenire i casi di molestie in azienda (oltre di valutarne i rischi nel DVR, come previsto dalla Convenzione ILO 190/2019).
Le misure precauzionali messe in atto dal datore devono, infatti, essere il più possibile mirate a intercettare a monte anche le condizioni fattuali che – nell’ambito della valutazione globale invalsa in giurisprudenza – possono concorrere alla configurazione di una molestia, tenuto conto della tipologia di organizzazione e delle sue caratteristiche: a questo proposito, può dunque essere utile considerare, ad esempio, il grado di complessità dell’azienda (più o meno strutturata), l’eventuale svolgimento di attività a contatto con il pubblico, l’età media della popolazione, la sensibilità generale rispetto al tema delle molestie, eventuali casi precedenti.
E’ altresì importante che questo approccio di prevenzione “mirata” del rischio di molestia sia posto alla base dei Codici etici e di condotta, delle policy, nonché delle relative sessioni di formazione al personale: documenti e azioni dalle quali deve trasparire il comportamento richiesto ai singoli componenti della compagine aziendale in relazione al concreto contesto organizzativo in cui essi operano e ai ruoli da ciascuno ricoperti.
avv. Giulietta Bergamaschi (in foto), managing partner e avv. Chiara D’Angelo, associate Lexellent