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     n. 10 anno 2024

Dosare premi e incentivi: un’arte complessa da coltivare con pazienza e perseveranza

di Gabriele Gabrielli

di Gabriele Gabrielli

Le imprese adottano molteplici decisioni sulla retribuzione: intervengono con incrementi retributivi di merito o per riconoscere il ruolo (salary review), danno premi economici collegati alla valutazione del contributo dei collaboratori (retribuzione variabile), prevedono incentivi in funzione del raggiungimento di obiettivi prefissati. Le componenti considerate a supporto delle scelte sono dunque diverse: talora è il ruolo e la sua importanza misurata con lenti che apprezzano soprattutto le responsabilità affidate; spesso il merito indicato da una performance corrispondente alle attese e fotografata dai sistemi di valutazione adottati che apprezzano, per lo più, sia risultati sia competenze e comportamenti; per alcuni ruoli può essere il raggiungimento di obiettivi (per lo più quantitativi e misurabili) predefiniti, conosciuti e formalizzati a cui sono associate curve di prestazione e curve di incentivazione per identificare il bonus economico che dovrà essere corrisposto.
Le decisioni come si sa devono poi tener conto in generale dei criteri di equità interna e di equità esterna (competitività).
Si sa infine che il disegno delle politiche retributive per governare la ricompensa nella cornice ormai largamente accettata del total reward costituisce un (possibile) terreno di conflittualità tra manager di linea e funzioni HR, nel quale possono confrontarsi diverse concezioni del lavoro e orientamenti temporali.

Due approcci, due concezioni del lavoro e dell’uomo
Un classico, interessante e talvolta acceso terreno di confronto è quello nel quale provano a dialogare due approcci differenti alla gestione della retribuzione figli di altrettante visioni del lavoro e dell’uomo. In sintesi, può essere rappresentato dalla spinta da un lato e dalla resistenza ad essa dall’altro a voler ampliare la diffusione di sistemi di incentivazione per obiettivi ben al di là dei ruoli di manager e venditori. Come noto i sistemi di incentivazione per obiettivi si fondano sull’assunto che i ruoli coinvolti hanno tutte le leve per poter conseguire gli obiettivi assegnati, target che - formalmente prestabiliti – sono anche provvisti di indicatori per misurare il livello di performance conseguita, così come sono preventivamente conosciuti anche gli esiti economici del loro raggiungimento. In letteratura, proprio per queste sue caratteristiche, tale forma di variabilità retributiva viene chiamata esplicita. La spinta cui facevo cenno - che segnala una tendenza crescente verso un’estensione dei piani di incentivazione -  è normalmente frenata dalle funzioni HR (ma non solo) che obiettano come una spinta incentivazione per obiettivi abbia almeno due controindicazioni: da un lato, quella della difficile identificazione di obiettivi che abbiano le caratteristiche descritte sopra; dall’altro, che incentivare troppo può avere conseguenze negative sul lungo periodo e snaturare la natura delle relazioni di impiego.
Si tratta di una discussione assai complessa rispetto alla quale voglio qui proporre soltanto qualche rapida riflessione a supporto di quanti guardano con timore all’allargamento delle maglie incentivanti del delicato tessuto organizzativo.

Estendere l’incentivazione per obiettivi? Anche no
Una prima considerazione è la seguente: estendere l’incentivazione per obiettivi a discapito di strumenti di retribuzione variabile non esplicita, ossia quella il cui valore economico non è conosciuto preventivamente e che potrà essere erogato a seguito di una valutazione della performance più che positiva e di altre condizioni (politica meritocratica), significa legittimare l’idea che il comportamento umano sia sempre e solo influenzato dalla ricerca di interessi personali e dal voler guadagnare di più, quindi da una motivazione solo estrinseca ed economica. Dietro questo atteggiamento si cela il modello dell’homo oeconomicus secondo il quale fondiamo le decisioni unicamente sui nostri interessi personali, ricercando il maggior beneficio possibile in modo puramente egoistico e razionale.
In realtà sappiamo bene che non è così, che la motivazione è multi-determinata, che ci diamo da fare e ci impegniamo per diverse ragioni. Insomma non c’è solo l’interesse individuale e la razionalità economica che guidano una persona ma anche l’amore per il lavoro che fa, la passione per la conoscenza, i valori, il purpose dell’impresa per cui si lavora, la ricerca del bene, la generosità. I manager d’altro canto cercano engagement nel lavoro, una dimensione questa che ha poco o per nulla a che fare con la ricompensa economica.

Perché abbiamo bisogno di coltivare la motivazione intrinseca
Una seconda considerazione riguarda invece gli effetti di un progressivo allargamento di pratiche incentivanti di tal natura. Ebbene teoria e ricerca empirica mostrano che più si ricorre all’incentivazione più si depotenzia la motivazione intrinseca. Per dirla in maniera molto semplice a forza di incentivare accadrà che il valore di quello che prima si faceva per amore cambierà di segno, s’impoverirà di senso e lo si farà solo dietro una ricompensa, spiazzando così l’effetto di altre motivazioni.
C’è una terza considerazione che merita attenzione e che propongo con qualche domanda. Conviene alle imprese depotenziare la motivazione intrinseca? Quali vantaggi offre soprattutto nel lungo periodo? Preferire incentivare anziché premiare i risultati e i comportamenti di chi s’impegna in coerenza con i valori dell’impresa offre reali benefici o contribuisce a far scadere le prestazioni che sono lasciate alla deriva di comportamenti opportunistici? Mercificare in questo modo il lavoro non va in direzione opposta a quella ricerca di engagement che assilla imprenditori e manager?
Dosare premi e incentivi è un’arte complessa lo sappiamo e la strada che porta ad essa è accidentata e piena di trappole: quella che ideologizza l’incentivazione per obiettivi continua ad affascinare un vasto pubblico. Bisognerebbe investire con pazienza e perseveranza per educare i manager a considerare questi aspetti rafforzando anche l’impegno nella ricerca. 

State pensando che così facendo si corre il rischio di essere considerati fuori dalla realtà? Per quel che mi riguarda dico “pazienza”, sono pronto a farmene una ragione.

 

Gabriele Gabrielli
Coach e consulente è Founder e Ceo di Studio Gabrielli Associati Srl e di People Management Lab S.r.l Società Benefit e BCorp certificata.Ideatore e presidente della Fondazione Lavoroperlapersona ETS, è professore a contratto di Organizzazione e gestione delle risorse umane e People management e reward all’Università Luiss Guido Carli e di Remunerazione e gestione delle risorse umane all’Università Europea di Roma dove è anche co-direttore del Master di 1^ livello in Sustainable HRM. I suoi lavori più recenti sono: Ridisegnare il lavoro, 2022 e Rigenerare la dignità del lavoro, 2023, entrambi per l’editore Franco Angeli. 

 

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