n. 12 anno 2024
Ha senso valutare il potenziale se non c’è sicurezza psicologica?
di Marina Capizzi
Da sempre le aziende valutano il potenziale delle persone attraverso assessment center, assessment individuali, tool diagnostici che possono sostituire o integrare i due format citati. Al di là della modalità utilizzata, la diagnosi del potenziale è sempre fatta ponendo il focus solo sull’individuo. Come se le potenzialità fossero una dotazione, appunto, della sola persona. Nei format migliori, viene dato un feedback ed elaborato un piano di autosviluppo che contiene esercizi, letture, e strumenti vari per allenare sul campo le competenze più deboli e valorizzare quelle più forti. In questo modo l’investimento diagnostico si integra con lo sviluppo che, alcune aziende, supportano anche con la formazione.
Bene così. Giusto?
Scusate…
Non avete la sensazione che ci sia un eccesso di “didattica” e un certo “vuoto pneumatico” attorno a questa operazione? E’ così che funziona nella realtà?
Supponiamo che una persona, terminato l’assessment, sia seriamente intenzionata a mettere in pratica il proprio piano di autosviluppo e, magari con il supporto di corsi formativi mirati, inizi l’“allenamento sul campo” ad esempio dell’iniziativa, una competenza spesso presente nel set di valutazione. L’allenamento sul campo dell’iniziativa presuppone che la persona si esponga per proporre idee e soluzioni (iniziativa di proposta) e che abbia l’autonomia per sperimentare (iniziativa d’azione). Nella maggior parte dei casi, secondo voi, cosa succede sul campo? Nelle nostre aziende è diffusa la pratica di prendere in considerazione le proposte? Chi ricopre un ruolo gerarchico è orientato a dare autonomia affinché le persone possano sperimentare? E, di solito, cosa accade se prendendo un’iniziativa, magari concordata, la persona sbaglia? L’errore è comunemente usato come opportunità di apprendimento individuale e collettivo? Potremmo fare altre decine di domande sulla vera “messa a terra” di un piano di autosviluppo. Perché la “messa a terra” (se non rimane un’espressione didattica) significa “entrata nel contesto reale”, dove la prima cosa che apre o che chiude la porta è la percezione di sicurezza psicologica. Una persona, per esporsi, deve percepire che non verrà umiliata, esclusa o punita per il fatto di aver fatto una proposta, detto “non sono d’accordo”, preso un’iniziativa, condiviso un errore… Non stiamo parlando di sicurezza psicologica in generale. Stiamo parlando della percezione di sicurezza psicologica nei singoli uffici, nei punti vendita, nei reparti, nelle squadre di lavoro… cioè nel contesto in cui operiamo tutti i giorni e dove, quindi, il piano di autosviluppo atterra.
L’investimento sulla valutazione del potenziale che non operi anche sulla sicurezza psicologica rischia di avere un ritorno assai limitato. Perché la scurezza psicologica è il gate che abilita la messa in campo delle potenzialità e, quindi, il loro reale sviluppo. Come dice Amy Edmondson, autrice di Organizzazioni senza paura e de Il giusto errore, “la sicurezza psicologica è il terreno, non il seme”. Se ci si limita a fare diagnosi del potenziale senza misurare e accrescere il livello di sicurezza psicologica nel contesto quotidiano, saranno le stesse potenzialità a non essere coltivate e a non fiorire, creando un danno serio alla capacità complessiva dell’organizzazione. E i nostri strumenti super scientifici, a cui ci affidiamo e ci appoggiamo per essere tranquilli sull’“affidabilità” della valutazione, ne rileveranno i miseri effetti.
Marina Capizzi, autrice di Non Morire di gerarchia, FrancoAngeli