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     n. 13 anno 2024

PMI familiari e manager non familiari

di Paolo Morosetti

In occasione del venticinquennale di AIDAF (Associazione Italiana delle Aziende Familiari), è stato presentato il volume “Family Business: costruire un futuro sostenibile – Dialoghi fra imprenditori e accademici”, curato da Paolo Morosetti della SDA Bocconi. Il volume guarda al futuro, cercando di estrapolare elementi concreti sulla base dei quali un’impresa familiar possa “costruire prima e preservare poi continuità e sostenibilità del Sistema famiglia-azienda”. Il tutto realizzato in modo diverso e non convenzionale, attraverso una serie di domande che imprenditori associati ad AIDAF (tra di essi, Michele Bauli, Veronica Squinzi, Elena Zambon, Matteo Lunelli) hanno rivolto a membri dell’accademia invitati a rispondere elaborando un breve saggio, su cinque grandi aree tematiche: Famiglia, Proprietà, Giovani, Impresa e Sostenibilità. Abbiamo chiesto a Paolo Morosetti di estrapolare per noi alcune delle evidenze più significative emerse. (introdotto da Maurizio Quarta)

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E’ noto che le PMI siano l’ossatura dell’economia nazionale, ma spesso ci si dimentica che sono anche delle imprese familiari; di prima generazione quando guidate dal fondatore o più fondatori oppure di seconda o successiva generazione quando la proprietà è trasferita a eredi raccolti in una famiglia proprietaria o imprenditoriale.

L’assetto proprietario è un parametro da non sottovalutare per capire il funzionamento di queste realtà. Difatti, l’intreccio famiglia e impresa assume trame uniche nel tempo che influiscono sulla strategia e sull’organizzazione e, per tale via, sul successo dell’impresa. Immaginate quali differenze potrebbero palesarsi in una PMI se fosse controllata da un fondatore, da tre fratelli e sorelle oppure da otto cugini e cugine. E provate a pensare a che cosa potrebbe accedere se tutti i familiari o solo una parte volesse lavorare in azienda o perfino guidarla.

Anche l’Unione Europea ha riconosciuto l’importanza della familiarità della proprietà per capire quali sfide specifiche questo comporti. Una ricorrente, ma non per questo di minore attualità, è il passaggio generazionale.

Ai più parrebbe del tutto razionale che gli eredi non debbano subentrare automaticamente ai genitori nel controllo dell’impresa e nella sua gestione. Senso del dovere, riconoscenza e affetto sono sentimenti nobili, ma nulla centrano con le logiche di business. Se questa è la teoria, nella pratica ci sono però ancora tante imprese dove i familiari lavorano in azienda senza adeguata preparazione o sono nominati in posizioni di leadership o apicali anche quando non adatti né motivati.

Come costruire continuità generazionale senza cadere nel familismo o privarsi della possibilità di integrare nuove competenze e vedute all’interno dell’organizzazione? 

A coloro che si interrogano su domande di questo genere suggerisco di riflettere su due principi di buon governo, non dimenticando che la materia è di interesse anche per i manager non familiari.

La differenziazione dei ruoli 

Il principio di differenziazione dei ruoli afferma che al passare delle generazioni si dà la possibilità al familiare-erede di diventare proprietario, ma non lo si coinvolge automaticamente nella governance, nella leadership o nel management. Questi ruoli, in buona sostanza, non possono essere trasmessi in via dinastica. 

Quanto alla proprietà, essa dovrebbe essere intesa più come una responsabilità che un diritto. Nella prima generazione il ruolo proprietario si confonde con gli altri e non si percepisce l’utilità della differenziazione, ma nelle generazioni successive tutto cambia e applicare questo principio è un’ancora di salvezza nel mare dei conflitti di famiglia. Essere proprietario è un lavoro part time e non dà un passaporto per attraversare il confine che dà accesso agli altri ruoli. Nel mondo delle PMI non è poi desiderabile una compagine proprietaria passiva rispetto alle vicissitudini aziendali e senza minime competenze aziendalistiche. Chiunque verrà nominato alla guida dell’impresa avrà bisogno di un punto di riferimento autorevole nella proprietà che esprima quale sia la strategia proprietaria ossia le attese e i paletti all’interno dei quali elaborare obiettivi aziendali e piani di azione.

Il ruolo di governance o di consigliere di amministrazione è assegnato dai soci in assemblea. Per svolgerlo con efficacia bisognerebbe acquisire una conoscenza e una formazione per partecipare attivamente alle riunioni di consiglio affinché la gestione della compliance - rispetto di leggi, regolamenti e statuti - si combini con il desiderio di farle diventare anche dei forum per indirizzare la strategia e controllarne l’esecuzione. 

Quanto al ruolo di leadership, il sogno di ogni imprenditore è di vedere almeno un erede o una erede alla guida dell’impresa nella generazione successiva. Nelle famiglie più numerose si vorrebbe pure che altri familiari possano ricoprire ruoli manageriali apicali. Si tratta di un sogno bellissimo sul piano affettivo e motivazionale, ma anche da perseguire con prudenza per non ostacolare lo sviluppo strategico e organizzativo della PMI. Quando le scelte di leadership e management non sono ancorate a valutazioni meritocratiche o in razionali solidi bisogna preoccuparsi poiché anziché perseguire obiettivi economici, forte è il rischio di soddisfare solo bisogni emotivi e sociali come la preservazione dell’identità e dell’immagine familiare all’esterno, il mantenimento della capacità della famiglia di esercitare una influenza a prescindere sull’impresa e la volontà di creare una dinastia familiare al comando.

L’apertura all’esterno

L’applicazione del principio dell’apertura all’esterno si riflette in quattro implicazioni chiave.

In primo luogo, “l’uomo o la donna sola al comando” è un modello che può avere successo per i fondatori e nelle piccole realtà, ma che rischia di fare danni se applicato nelle generazioni successive. E’ la squadra che fa la differenza ed è la via maestra per combinare produttivamente talento familiare e non familiare. 

In secondo luogo, è da non confondere apertura con managerializzazione. Managerializzare significa muovere da un’organizzazione che dipende dalle persone a una che opera per processi che valorizzano le capacità individuali trasformandole in competenze organizzative nel quadro di un sistema di deleghe. Non è invece da intendere managerializzazione come espulsione dei familiari dall’organizzazione. Il talento familiare deve essere sempre incentivato a ricoprire un ruolo organizzativo per merito, ma anche formato a lavorare con manager non familiari che possano apportare competenze di qualità, nuove prospettive e stimoli culturali.

In terzo luogo, l’apertura all’esterno dovrebbe investire anche la struttura del consiglio di amministrazione. La voce di consiglieri esterni autorevoli e preferibilmente indipendenti contribuisce a rendere il funzionamento dell’organo amministrativo più strategico e dà sostegno ai processi di managerializzazione.

In ultimo, l’apertura deve toccare anche il modello di business e operativo. Se questo ragionamento è del tutto intuitivo quando si pensa alle catene di fornitura e produttive nelle quali una PMI è naturalmente parte, lo è un po’ meno quando scambi, partnership e confronti bisogna intensificarli verso i fornitori di know how specialistico come coloro che operano nel mondo delle nuove tecnologie, si pensi agli sviluppi sull’intelligenza artificiale, oppure dei servizi professionali a valore aggiunto come quelli forniti da società di consulenza o che si occupano di sviluppo organizzativo e risorse umane. Le PMI aperte hanno più chance di successo.

Essere manager non familiare in una PMI familiare 

Ricoprire un ruolo apicale in una PMI familiare, non essendo parte della famiglia, può essere una splendida opportunità di carriera. Ci vuole però molta cura e adeguate soft skill per affrontarla nel modo migliore. Qualche raccomandazione basata su tante esperienze può essere preziosa. 

Prima di tutto, bisogna saper costruire un rapporto di fiducia con la proprietà e per questo ci vuole tempo, capacità di ascolto nonché un forte allineamento valoriale e di vedute. Non è solo una questione di competenze. Comunicazione, trasparenza e capacità di dare feedback senza urtare le sensibilità delle persone sono aspetti chiave.

In secondo luogo, bisogna saper coniugare tradizione con cambiamento per far evolvere l’impresa senza che questo possa essere percepito come una forma di critica del passato o di eccessivo allontanamento dai valori familiari. Il change management ha caratteri del tutto specifici nelle imprese familiari: più che rivoluzioni, bisogna saper impostare delle evoluzioni.

In ultimo, bisogna accettare e saper partecipare a un processo di passaggio generazionale sapendo che ci potrebbe essere una fase nella quale si è chiamati a svolgere un ruolo di tutor o mentor a favore di giovani che potrebbero diventare, in una fase successiva, i nuovi riferimenti nella gerarchia.

 

Paolo Morosetti – Senior Lecturer di Strategy and Entrepreneurship presso SDA Bocconi School of Management 

 

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