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     n. 15 anno 2024

Intelligenza generativa

Curato da 24ORE Business School

Molte domande sugli effetti di quella artificiale. Poche su quanto poco spazio abbiamo dato a quella umana.

Uno dei temi più discussi al momento sul mondo del lavoro, riguarda gli effetti dell’intelligenza artificiale generativa.

In parte mi conforta, perché come diceva Cartesio, il dubbio è l’origine della saggezza.

In una recente intervista anche Mustafa Suleyman, alla guida degli sviluppi dell’intelligenza artificiale in Microsoft, si è espresso esplicitando dubbi sulla capacità che avremo di contenerla. Devo dire che preferisco le persone che esprimo una vera incertezza a quelle che esprimono una falsa sicurezza.

Oggi la certezza nella conoscenza è uno degli inganni da cui uscire. Su alcuni fronti conosciamo per esplorazione. Comprendiamo solo durante il viaggio.Questo riguarda anche il fronte delle tecnologie digitali. Ad esempio, non per nutrire il fronte allarmista, siamo ancora all’inizio della comprensione degli effetti negativi di una generazione phone-based e direi in particolare una socialnetwork-based.

Ma l’ascesa dell’intelligenza artificiale generative ci interroga anche non solo sul futuro, ma sul passato che abbiamo realizzato, quando abbiamo avuto a disposizione tanta intelligenza umana, che teoricamente e potenzialmente avrebbe dovuto essere ancora più generativa.

Non voglio condannare in tutto il management scientifico, ma dobbiamo fare i conti sulle condizioni nelle quali lo abbiamo fatto nascere, e come lo abbiamo fatto crescere.

La culla del management scientifico è stata la linea di produzione. Per carità: una buona ambizione quella di produrre in grande scala un prodotto per farlo arrivare a più persone possibili. Ma facciamo i conti su come ci siamo arrivati: standard, omologazione, parcellizzazione del lavoro e separazione delle persone. Una impresa fondata sulla mancanza di fiducia. Datori di lavoro che non si fidavano degli operai, e in ottima corrispondenza operai che non si fidavano dei datori di lavoro.

Persone che vivevano come ingranaggi, tutti utili nessuno indispensabile (e lo diciamo ancora!).

Cosa abbiamo fatto di quelle intelligenze? Tra l’altro prima Howard Gardner, poi Daniel Goleman, ci hanno ricordato che l’intelligenza è multipla. E la generatività nasce proprio dall’incontro di questi cervelli.

Sono un appassionato di pratiche organizzative ed una che mi appassiona, nell’ambito dell’apprendimento organizzativo, si è sviluppata all’interno della Pixar: il brain trust. Mi fa pensare alla fiducia nell’incontro di più cervelli, di più persone. Quando più persone si incontrano in una fiducia reciproca, uno scopo condiviso ed una ricerca aperta e sincera, accadono cose straordinarie, che spesso superano le stesse aspettative, perché vanno oltre quello che è prevedibile.

Una volta dovevo preparare un webinar da tenere insieme con un esperto di tecnologie digitali. Io gli dico “vorrei parlare di conversazioni generative”. Lui mi fa: “ah certo... chatgpt”. Lo comprendo: parliamo così poco di conversazioni generative umane. È normale che le sottovalutiamo e le pratichiamo poco.

Allora, forse in parallelo alle condivisibili ed importanti domande che ci poniamo su come avere uno sviluppo sostenibile delle tecnologie digitali ed in particolare della intelligenza artificiale, diamo altrettanto peso al porci domande, discutere ed agire diversamente per fare ampio spazio alla intelligenza umana generativa, come non lo abbiamo fatto sino ad ora.

Quali le sfide?

  1. Riscoprire il lavoro come espressione personale. Ce lo chiede fortemente la nuova generazione al lavoro. Forse siamo in transizione, e la risposta che molti di loro stanno dando, il cosiddetto “job hopping” non è la migliore, perché potrebbe anche essere legata ad una capacità di attesa, di sacrificio e pazienza che andrebbe praticata maggiormente. Ma è una generazione che ha assistito a persone che si sono immedesimate con il proprio job title, che si sono vestite tutte uguali e che sono state ferme in delle caselle organizzative rispondendo a standard e schemi omologanti. L’organizzazione dovrebbe essere uno strumento per portare il valore delle persone al lavoro, non per bloccarlo. Aiutiamo le persone ad interpretare il proprio ruolo nell’organizzazione, come fosse un canovaccio per un attore. Evviva anche un poco di spazio ad una improvvisazione personale. Che senso ha che in quel ruolo ci sia proprio io, unico ed irripetibile? Il viaggio che chiamiamo lavoro dovrebbe essere lo svelamento di un capolavoro unico, non la corrispondenza ad una immagine standard. Una pratica fra le altre? Il job crafting: offrire alle persone uno spazio per “modellare il proprio lavoro”.
  2. Riscoprire l’impresa come comunità di persone. Abbiamo chiamato le persone al lavoro dipendenti. Che brutto modo di definire il rapporto delle persone con l’impresa. Ma certo non possiamo costruire imprese con un insieme di persone totalmente indipendenti. Rinnoviamo la consapevolezza sui legami di reciprocità. In tutte le persone vive una motivazione pro-sociale: desideriamo portare qualcosa di buono nella vita delle persone che ci circondano e cooperare insieme ad altri per qualcosa che ci trascende, che in parte ci appartiene e a cui in parte sentiamo di appartenere. Si parla tanto della sfida HR di attraction e retention. Riscopriamo il fattore di attrazione che ha il vivere una comunità di persone. E sulla retention, una volta un imprenditore che stimo molto mi ha detto: “io in verità non voglio trattenere nessuno”. Effettivamente basta e avanza l’impegno nell’engegament. E questa va riscoperata come una responsabilità diffusa: ciascuno di noi è sempre engager o… disengager. Dipende dalla qualità dei nostri incontri, conversazioni, relazioni.
  3. Riscoprire che tutti i giorni, attraverso il lavoro e attraverso l’impresa, abbiamo un impatto. Encomiabile chi trova tempo per fare volontariato, nel desiderio di fare la differenza, di lasciare un segno positivo. Ma per quanto ne possiamo trovare, non potrà mai pareggiare i conti con quello che destiniamo al lavoro professionale, con le competenze, energie e connessioni che riversiamo al suo interno. Dobbiamo riscoprire il senso profondo del lavoro e della impresa, attraverso cui facciamo sempre la differenza, a partire dalle piccole cose: salutare ciascuna persona, con maggiore attenzione per quelle che hanno meno potere, saper chiedere come stai per sapere davvero come stanno le persone e non per dare immediatamente a seguire indicazioni ed altro, sacrificarci a volte per aiutare altri per non ottenere nulla in cambio, se non appunto un legame di reciprocità.

La pratica, che in tutte e tre queste sfide ci può aiutare, è quella delle conversazioni generative. Incontrarci sospendendo temporaneamente i giudizi che abbiamo in testa, ascoltare con piena attenzione (e con smartphone, pc e relative app a distanza di sicurezza…), aprirci insieme al lasciar arrivare qualcosa di nuovo.

Con-versare: voltarci insieme verso qualcosa che non c’era prima che ci incontrassimo e ora c’è, proprio perché ci siamo incontrati. Con fiducia, sincerità, apertura.

Provare per credere.

Francesco Limone, Professor of Leadership &Communityship 24ORE Business School

 

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