n. 2 anno 2025
Pensioni, relazioni sindacali, rassegnazione
di Paolo Iacci
Far west, al tempo della corsa all’oro. “Doc”, dentista e proprietario della drogheria del paese, è noto da sempre per la sua miracolosa cura per l’artrite. Il primo sabato del mese è solito visitare i suoi “pazienti”.
Così, anche quel sabato fuori dalla porta della drogheria si forma a poco a poco una lunga fila di persone sofferenti. Tra queste, la prima della coda è una vecchina piccina, completamente curva, che, quando cammina si trascina a fatica, tutta china sul suo bastone.
Appena il negozio apre, con grandissima fatica la vecchina entra. Ne esce dopo mezz’ora camminando perfettamente dritta, a testa alta.
Una donna, che aspetta in coda, esclama: “E’ un miracolo! Mezz’ora fa è entrata tutta curva e ora cammina perfettamente dritta! Quale cura miracolosa si è inventato Doc questa volta?”
“Mi ha dato un bastone più lungo!”
Molte volte la soluzione dei nostri problemi è il più semplice, altre volte il tema è invece più complesso. Prendo a questo proposito due fatti significativi avvenuti in questi ultimi giorni nel mondo del lavoro:
- È uscito il rapporto annuale di Itinerari previdenziali sullo stato dei conti dell’INPS. La spesa pensionistica di natura previdenziale (comprese invalidità, vecchiaia e superstiti) è ammontata nel 2023 a 267,107 miliardi di euro, con un incremento di 19,53 miliardi (+7,88%). A far lievitare la spesa sono stati sia l’aumento del numero di pensionati (+98.743 rispetto al 2022) sia la rivalutazione degli assegni di importo più basso. L’incidenza sul Pil è pari al 12,55%, ma scende all’11,48%, in linea con la media Eurostat, se si escludono dal calcolo gli interventi assistenziali e di sostegno al reddito che dovrebbero essere di pertinenza della fiscalità generale. Secondo il Rapporto i conti della nostra previdenza possono ancora reggere, ma serve un cambio di rotta tenuto conto degli effetti della crisi demografica e un debito pubblico che a novembre ha sfondato la soglia dei 3.000 miliardi di euro. Teniamo presente che in questo momento ci sono circa 17,8 milioni di pensionati e 24 milioni di lavoratori attivi. A parità di regole attuali nel 2040 avremo 3 milioni di lavoratori in meno. Proviamo a fare un calcolo semplice: 17,8 + 3 e poi facciamo 24 - 3. Il risultato? Con le regole attuali il sistema non può reggere. Itinerari previdenziali propone di bloccare le numerose forme di anticipazione oggi previste dall’ordinamento, e, contemporaneamente, di prevedere un superbonus per quanti scelgono di restare al lavoro fino ai 71 anni di età. Non sono certo che queste regole possano bastare, ma già queste sembrano di difficile attuazione. La vecchina non è ancora storta, ma ha urgentemente bisogno di un bastone più lungo.
- Negli ultimi giorni abbiamo assistito allo scontro tra Cgil e Cisl a proposito del progetto di legge di iniziativa popolare sostenuto dalla Cisl sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, in commissione alla Camera. Un’iniziativa che si propone di dare attuazione all’articolo 46 della Costituzione, ma che per la Cgil rappresenta un grave rischio per l’autonomia contrattuale dei lavoratori e che paventa la possibilità di un depotenziamento della contrattazione. La Cisl punta a varare un nuovo corso delle relazioni industriali con un approccio partecipativo che valorizzi il ruolo dei lavoratori nelle decisioni strategiche delle imprese. La Cgil, invece, vede nel progetto un arretramento rispetto alle conquiste ottenute in decenni di contrattazione collettiva. Per Landini, la vera priorità dovrebbe essere una legge sulla rappresentanza e l’introduzione del salario minimo orario, in linea con la direttiva europea. Lo scontro si inserisce in un momento delicato della nostra economia. Da 22 mesi l’andamento del nostro settore industriale è in netta discesa e nel 2026 verranno meno i fondi del PNRR. Malgrado il dato occupazionale risulti ancora molto positivo, siamo in presenza di alcuni indicatori che preannunciano un 2026 e un 2027 all’insegna delle ristrutturazioni aziendali. Il punto è con quale modello di sindacato arrivarci. La battaglia è aperta e per ora sul versante imprenditoriale giungono pochi segnali al riguardo. Qui anche il nostro Doc avrebbe delle difficoltà.
Questi due temi da soli dovrebbero essere all’ordine del giorno di tutti coloro che si occupano di lavoro, eppure il dibattito sembra essere circoscritto ai soli addetti ai lavori. Il Censis nel suo ultimo Rapporto parla diffusamente della “sindrome italiana”, quel particolare fenomeno che porta il nostro Paese a non compiere né “capitomboli rovinosi nelle fasi critiche e recessive, né scalate eroiche nei cicli positivi”. Un “galleggiare” perpetuo, dove tutto viene coperto da una coltre di ovattata mediocrità. L’opinione pubblica si raduna in “movimenti del rimprovero”, ma non si rivolta.
Nonostante il diffuso malcontento, prevale un sentimento di antalgica rassegnazione. Nel mondo del lavoro si vedono all’orizzonte questi fenomeni (e altri ancora), molto preoccupanti, ma tutto tace. Sembra che debbano riguardare qualcun altro, non tutti noi. Nelle imprese di queste cose non si parla. I convegni dell’HR li ignorano. Il 2024 si chiude registrando un record nel numero degli occupati, eppure il Pil si riduce e la produttività per ora lavorata dell’industria italiana ed europea continua a perdere punti. L’evoluzione dei salari in Italia dal 1991 ha registrato un modesto aumento del 1%, in netto contrasto con la crescita del 32.5% nell’area OCSE. I dati del Censis mostrano un Paese chiuso e preda di pregiudizi, dove dilaga l’ignoranza, i giovani laureati espatriano e la crescita è in stallo. Eppure, il tema sembra non riguardarci.
Forse alcuni sperano che alla fine arriverà un fantomatico Doc con un provvidenziale bastone. Mi auguro davvero che non finisca così.
Paolo Iacci, Presidente ECA, Università Statale di Milano