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     n. 4 anno 2025

Carichi di lavoro, stress, cultura performativa

di Gabriele Gabrielli

di Gabriele Gabrielli

Workload e stress sono termini ormai entrati in maniera stabile nelle storie di lavoro che vengono raccontate e che ascoltiamo quotidianamente. I protagonisti di numerose imprese affermano che le persone sono preoccupate dei carichi di lavoro e che soffrono per i ritmi e le aspettative crescenti. Alcuni dicono che siano i più giovani a manifestare maggiore disagio.
Non c’è da stupirsi di questo crescendo. In effetti la cultura della prestazione e le metriche di cui è rivestita stanno trasformando il lavoro (anche la vita) in una giostra dove si rincorrono aspettative continuamente al rialzo di risultati. Un modo di gestire il lavoro che non tollera l’idea del limite: tutto si può fare, tutto si può superare. Ad ogni nuovo traguardo non segue una pratica di consolidamento, si rilancia subito. Pronti a contare quanti non ce la faranno.
Tutto questo prende forma in dispositivi culturali, sociali e organizzativi che generano disagio, intaccando in profondità la salute dell’essere umano poiché allontanano la conquista di un benessere integrale (fisico, mentale, sociale) in grado di promuovere lavoro dignitoso e sostenibile.
Così nel tempo, non ce ne siamo accorti, si è generato un processo di riduzione di significato dell’umano diluito entro i meccanismi che consentono al sistema produttivo di funzionare bene. Una logica che, per forza di cose, finisce per produrre scarti. Lascia sul campo feriti, più o meno gravi. Sono dispositivi che ci fanno percepire di essere all’altezza della situazione solo quando funzioniamo bene, soddisfacendo appieno le aspettative di performance dell’impresa che il management traduce in schemi di gioco, processi, sistemi di valutazione che non lasciano spazi di manovra per la persona. 
Così anche il lavoro, malgrado i valori dichiarati e le policy predichino cooperazione, diventa luogo ove gareggiare e competere per non finire nel cestino delle cose che non servono più allo scopo, strumenti che hanno esaurito la loro forza vitale. Costi insostenibili.
Con quali conseguenze? La più immediata è che se l’esistenza lavorativa – malgrado l’uso abbondante di espressioni che esaltano la centralità dell’employee e della sua experience - viene ridotta a lotta senza quartiere per allontanare nel tempo il dramma della caduta prestazionale, non potranno che essere affilate le armi della competizione che, spogliata del senso originario del cum che postula il fare insieme le cose per ottenere risultati, porterà con sé solo affanno, prevaricazione, paura e invidia. 
Inoltre, anche le pratiche manageriali che hanno il compito di organizzare e gestire il lavoro indicheranno questa strada; così anziché segnate dal condividere, saranno plasmate piuttosto da incentivi a correre più veloce degli altri per lasciare indietro quanti più colleghi si potrà, ossessionati dall’idea di finire nel mucchio degli utensili malfunzionanti e irreparabili da buttare. 
Cosa succederà ancora? Se la narrazione prevalente dice che quel che conta davvero sono solo i risultati, resterà anche difficile credere a quelle esperienze organizzative che affermano di voler investire per costruire condizioni organizzative che riconoscano cittadinanza alla «human performance». Ed è un vero peccato, perché ci sono culture e leadership che cercano davvero di seguire questa direzione. Sono esperienze nelle quali, per esempio, capita di ascoltare che lavoratori di ogni età, anche quelli che normalmente vengono guardati come “ferri vecchi” da ammucchiare nella panchina trasformatasi nel frattempo in una sorta di deposito di umanità dimenticata, sono destinatari di investimenti formativi e di sviluppo.
Nel lavoro (e nella vita) si può dunque cercare e percorrere vie diverse da quella che vorrebbe veder tutti concentrati nella ricerca continua di record per lasciare indietro gli altri. In realtà, veniamo alla luce per condividere e costruire insieme. Il lavoro organizzato, del resto, non è primariamente coordinamento di sforzi per raggiungere uno scopo comune? L’esperienza umana dunque non è tale senza relazioni, non può essere affidata perciò a ideologie e stili di management che esaltano individualismo e performance. 

 

Gabriele Gabrielli
Coach e consulente è Founder e Ceo di Studio Gabrielli Associati Srl e di People Management Lab S.r.l Società Benefit e BCorp certificata.Ideatore e presidente della Fondazione Lavoroperlapersona ETS, è professore a contratto di Organizzazione e gestione delle risorse umane all’Università Luiss Guido Carli e di Remunerazione e gestione delle risorse umane all’Università Europea di Roma dove è anche direttore del Master di 1^ livello in Sustainable HRM. I suoi lavori più recenti sono: Ridisegnare il lavoro, 2022; Rigenerare la dignità del lavoro, 2023 e La società tra prestazione e relazioni, tutti per l’editore Franco Angeli. 

 

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