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     n. 7 anno 2025

Stare bene al lavoro fa bene al lavoro

di Francesca Rizzi

Stare bene al lavoro fa bene al lavoro: un’affermazione che potrebbe suonare lapalissiana, ma che di fatto, rappresenta una consapevolezza recente, effetto di uno scenario del lavoro che, soprattutto a partire dall’emergenza pandemica, sta vivendo, nel nostro Paese come altrove, cambiamenti radicali. 

Negli ultimi cinque anni il mondo del lavoro ha subito trasformazioni significative, effetto accelerato di tendenze già in atto, come il lavoro da remoto e la flessibilità degli orari. La socializzazione, che un tempo era una delle funzioni principali del luogo di lavoro, ora deve essere riconsiderata, mentre forme ibride di lavoro stanno diventando sempre più comuni, con il risultato di una sempre maggiore integrazione tra vita privata e professionale. 

In questo contesto si moltiplicano le sfide legate al benessere dei collaboratori come elemento strategico per supportare la produttività, alimentando la capacità di attrarre e trattenere i talenti e contenendo i costi legati al turnover. In quest’ottica, il corporate wellbeing, inteso come un approccio olistico al benessere dei propri collaboratori per migliorare la loro qualità di vita, diventa uno strumento chiave per mantenere la propria competitività sul mercato.

Adottare una strategia integrata di corporate wellbeing che preveda iniziative a supporto del benessere, anche psicologico, dei propri collaboratori può, infatti, portare a un incremento del 20% di produttività – con un valore aggiunto per addetto pari a quasi 60mila euro, come ha rilevato lo studio “Benessere e Produttività: i benefici economici del Corporate Wellbeing e i costi del non fare per le aziende” realizzato in collaborazione con TEHA Group – The European House Ambrosetti.

Mai come oggi, quindi, la spesa in strumenti in grado di promuovere un contesto lavorativo sano e soddisfacente deve essere intesa come un investimento strategico non solo per la crescita, ma per la stessa sopravvivenza dell’impresa in un mercato del lavoro in continua evoluzione e sempre più competitivo.

Mettere a disposizione dei propri collaboratori servizi di supporto psico-relazionale per aiutarli a gestire le difficoltà in ambito personale, familiare e professionale è sicuramente un primo passo che diventa molto più efficace se inserito in percorsi strutturati di counseling. 
Grazie all’Osservatorio Balance di Jointly che ha analizzato diverse centinaia di casi, abbiamo infatti potuto constatare come i percorsi di counseling gestiti direttamente dall’azienda si dimostrino molto più efficaci rispetto alla semplice copertura delle spese terapeutiche.
Partire dall’ascolto permette, inoltre, di poter orientare al meglio interventi e iniziative finalizzate a migliorare benessere emotivo, capacità di gestione dello stress e produttività sul lavoro superando, al tempo stesso, il rischio di mismatch, ovvero il mancato allineamento tra l’offerta di corporate wellbeing delle aziende e le reali esigenze dei collaboratori.

Ma quali sono le problematiche principali riportate dai lavoratori? 
A pesare in maniera prevalente sembrano essere le tematiche personali, descritte come problematiche da più di un lavoratore su 5, seguite da questioni relazionali sul posto di lavoro e difficoltà nello sviluppo professionale. Criticità che spesso hanno bisogno solo di spazio e tempo per essere affrontate in maniera costruttiva e risolte, come dimostra il fatto che la loro incidenza risulta molto ridotta, una volta terminati i percorsi specifici.
Un altro dato interessante è che le motivazioni di ricorso a programmi di supporto psico-relazionale in azienda variano a seconda delle generazioni. Se per i lavoratori più giovani, GenZers e Millennial le difficoltà sono spesso legate all’inserimento lavorativo e alla comprensione delle dinamiche aziendali, i lavoratori tra i 30 e i 50 anni si trovano più spesso a sentirsi sopraffatti dai carichi familiari. Diverso il discorso per gli over 50 che in molti casi soffrono un mancato allineamento con il proprio ruolo e mansioni in continua evoluzione, in una sorta di crisi identitaria. 
Anche in considerazione di queste differenze, l’ascolto si conferma un primo passo necessario e fondamentale per disegnare interventi e programmi di corporate wellbeing che siano realmente efficaci nel migliorare il benessere dei collaboratori e il clima aziendale perché, prendendo in prestito le parole di Albert Schweitzer, “il successo non è la chiave della felicità. È la felicità ad essere la chiave del successo”.

 

Francesca Rizzi, Co-founder e CEO di JOINTLY

 

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